sabato 31 gennaio 2015

La doppietta di Gigi Meroni alla Fiorentina


di Vincenzo Paliotto (I giorni del Grifone, rubrica dedicata al club più antico d’Italia)

“Meroni Luigino fu triste il destino con te”, così cominciava una canzone degli Anni Sessanta, che purtroppo era costretta a ricordare Gigi Meroni, il grande calciatore italiano, scomparso in un incidente stradale beffardamente inventato dal destino. Ma Gigi Meroni, morto ad appena 24 anni il 15 ottobre del 1967, fu uno dei migliori calciatori italiani di tutti i tempi. Dribblomane, giocava con i calzettoni sempre abbassati, era un‘anticonformista e difficilmente scendeva a qualche compromesso, anche nei confronti di quegli allenatori che volevano tenerlo fuori squadra, per i suoi capelli lunghi ed il suo atteggiamento quasi proclamato da quinto beatle. Ma Meroni era un idolo incontrastato delle folle e soprattutto di quella genoana nel biennio che andò dal 1962 al 1964, giocando in campionato 42 partite con 7 gol con la maglia del Grifone. Nell’estate del 1964 il Genoa lo cedette al Torino per la cifra stratosferica di 300 milioni, nonostante le proteste dei tifosi rossoblu che scesero in Piazza De Ferrari per scongiurarne l’addio. Ma fu tutto inutile. Nel frattempo, mentre il suo cartellino passava dal Genoa al Torino, l’allentore ligure Beniamino Santos stava tornando in tutta fretta dalla Spagna per impedirne la cessione. Ma fu tutto inutile, Santos perì in un incidente stardale. Un cattivo presagio.

 
Gigi Meroni era un calciatore di indiscutibili doti tecniche, ma anche di enormi doti umane. Sapeva farsi voler bene da tutti, anche in un mondo del calcio in cui spesso era difficile coesistere con il sistema ed i giochi di potere. Non amava molto le luci della ribalta e si innamorò della giovane Christiane, che lavorava al Luna Park di Genova. La famiglia la diede in sposa ad un noto produttore cinematografico, ma lui se la riprese grazie al suo enorme amore. Proprio per questo gli furono vietati i funerali canonici della Chiesa Cattolica, ma la gente, la sua gente, lo omaggiò con una folla ocenaica al suo ultimo saluto.

 Il 1° novembre del 1962 il Genoa ricevette al Ferraris la visita della Fiorentina e la squadra viola fu piegata prorpio da una prestazione straordinaria di Gigi Meroni, autore nell’occasione di una sontuosa doppietta. I gol dell’ala genoana arrivano al 18’ del primo tempo e dopo pochi minuti nella ripresa. Il marcatore diretto Castelletti impazzisce per tutto l’incontro, andando sulle tracce di un Meroni che non riuscirà mai del tutto ad inseguire. Hamrin accorcia le distanze per i gigliati, ma sarà tutto inutile. La stagione del Genoa sarà nobilitata dalla  classe di Meroni e dal record di imbattibilità di Mario Da Pozzo, fermatosi a 791’. Ma negli occhi della gente del Ferraris rimasero soprattutto le prodezze di quel funambolico giocatore che il Genoa aveva pescato con lungimiranza nel Como. Che calcio quello di Meroni, un calcio che purtroppo non tornerà più.

venerdì 30 gennaio 2015

Esterophilia: Saint Etienne-PSG


di Vincenzo Lacerenza (www.calciofuorimoda.blogspot.com)
Saint-Etienne-PSG 0-2 (07/04/1981, trentunesima giornata, Ligue 1)

St. Etienne: Castaneda, Battiston, Paganelli, Gardon, Lopez, Janvion, Larios, Elie, Platini, Roussey, Rep. All. Robert Herbin.

Paris Saint-Germain: Baratelli, Pilorget, Boubacar, Morin, Abel Braga, Col, Lemoult, Fernandez, Dahleb, Nambatingue Toko, Rocheteau. All. Georges Peyroche

Marcatori: Nambatingue Toko 50', Dahleb 68'

Operare un ricambio generazionale, dare un tocco di freschezza e gioventù alla squadra, tracciare un punto di di rottura e discontinuità con il passato. E' questa la formula adottata nella stagione 1980/1981 dalla dirigenza del Saint-Etienne per rinverdire gli antichi fasti. Reduci da due terze piazze consecutive, Les Verts avvertono il bisogno di tornare a sgranare ambizioni e convinzioni, bacheca e autostima, puntando il mirino più in alto, in direzione di quel titolo nazionale che latita ormai da sei stagioni. Il diktat parte dall'alto, dal presidente Roger Rocher, ormai stufo di inseguire soltanto piazzamenti. Attraversa tutto l'organigramma societario e arriva a Pierre Garronaire, direttore sportivo del club. La linea da seguire è chiara, anzi è verde: arrivederci e grazie ad alcuni senatori dello spogliatoio, benvenuto e prego alle nuove leve, scrupolosamente individuate e proiettate nella nuova realtà dal ds con l'avallo del tecnico Robert Herbin, leggenda del club da calciatore e pluridecorato manager dei Verdi da quasi un decennio. In ossequio alla nuova filosofia sposata dai vertici del ASSE, lasciano la Loira Repellini e Rocheteau: il primo si accasa all'Hyéres, mentre il secondo non resiste al fascino della Ville Lumiere trovando sistemazione al Paris Saint-Germain. Pochi movimenti, ma mirati e di grande spessore, in entrata. Si vestono di verde Patrick Battiston, vigoroso difensore di orgine italiana (che in molti ricorderanno per il celeberrimo scontro con Harald Schumacher a Spagna '82) prelevato dal Metz e Bernard Gardon, affidabile uomo d'esperieza ingaggiato dal Monaco per allungare la coperta difensiva a disposizione di Herbin.

mercoledì 28 gennaio 2015

La storia di Sam Chedzgoy


di Vincenzo Lacerenza (www.calciofuorimoda.blogspot.com)

 Ernest Edwards è un signore distinto sulla quarantina. Di professione fa il giornalista, sportivo per la precisione. Di football per vocazione. Per i calciatori è uno spauracchio: dalle colonne del Liverpool Echo, testata per cui intinge il calamaio, può esaltare una prodezza o evidenziare un errore. Può lanciarti in Paradiso o catapultarti agli Inferi. Il Purgatorio non esiste, Edward non è un fautore delle mezze misure, nè dei compromessi. Ha una certa autorevolezza ed anche un nemmeno troppo velato debole per l'Everton. Forse non ama apparire troppo in pubblico, se c'è un posto dove si sente al riaparo quello è la tribuna stampa. Di Anfield o di Goodison. Quando scrive è acuto, arguto e puntiglioso. Ce l'ha proprio nel DNA la pignolitudine: se c'è una cosa che non tollera quelle sono le regole approssimative, i vuoti normativi che lasciano spazio a interpretazioni. Il 2 Ottobre 1924 ha sentito l'eco di un gesto inconsueto: l'Olimpico. E' infatti il giorno dell'incredibile segnatura direttamente da corner di Cesareo Onzari. Un tocco, una parabola, velonosa e beffarda: una rete. Da incorniciare, da ricordare, da studiare. Edward che conosce i regolamenti come le sue tasche sobbalza sulla sedia. Non è possibile. Quelli che tengono in mano le regole del gioco, l'IFAB, hanno diposto in maniera diversa: non si può segnare un punto filato da azione d'angolo. Tra l'intersezione delle perpendicolari e la linea di porta deve, per forza, esserci un altro tocco. Altimenti non vale. E invece si può. Dal 1924 quei saputelli dell'IFAB hanno mutato le norme regolanti la funzione del calcio d'angolo. Addio all'obbligatorietà del tocco di un altro giocatore, benvenuto alla stoccata diretta in porta. Benvenuto all'Olimpico. Ma Edwards è puntiglioso, pignolo, scrupoloso. Mettere i puntini sulle i è un esercizio a cui non sa rinunciare. E ad uno così, uno come Ernest Edwards, non possono sfuggire le lacune della nuova normativa. I punti fallaci, le crepe, i coni d'ombra, le zone grigie. Le incertezze. Ma come dimostrarlo? Semplice. Basta chiamare un calciatore, uno tra quelli inseriti nel memorandum delle fonti, sommistrargli un piano e magari immolare anche due sterline alla causa per ammantare di appetibilità la proposta. Il prescelto è Sam Chedgzoy (Ellesmere Port, 27 gennaio 1889 – Montréal, 7 gennaio 1967), centrocampista dall'aria rusticana da quattordici anni sulla sponda blu del fiume Mersey. Da quando, da quel Boxing Day del 1910, appena prelevato dai dilettanti del Birnell's Ironworks, debuttò con gli immancabili legacci a fiocco a cingerli i lembi superiori della divisa. Di strada ne aveva fatta davvero tanta fino a quel 15 Novembre 1924, giorno in cui l'Everton affrontava il Woolwich Arsenal. Giorno in cui decise di accettare l'allettante offerta di Edwards. Incassate le due sterline, non restava altro che mettere in atto quanto studiato a tavolino. La strategia messa a punto dal Sun Tzu scouser era abbastanza elementare: intendeva mettere in luce tutti gli effetti collaterali della nuova disposizione. Come tutti i sabati Edward prese posto in tribuna stampa. Si accomodò, depose penne e taccuini e si accese un pipa. Non era nervoso, forse soltanto un po' ansioso. Non stava nella pelle. Quasi alla metà della prima frazione la palla terminò in calcio d'angolo. E li che Edwards si alzò in piedi, scrutò gli attimi e spalancò le orbite in attesa del suo momento. Quello che tanto stava aspettando. Chedgzoy non si tirò indientro, onorò i patti: sistemò accuratamente la sfera, fintò il passaggio al compagno e partì. Palla al piede dall'angolo alla porta. Pochi passi, tanta incredulità. Degli avversari, del pubblico, dell'arbitro, dei compagni. Poi di colpo la conclusione. Abbastanza risoluta, ma poco precisa, a scheggiare il palo. E poco importa se non arriva il goal. Edward da lassù se la ride. C'è riuscito, ha dimostrato ciò che voleva dimostrare. Ha messo spalle al muro l'IFAB. Che è costretta a rivedere ancora una volta la regola: si alla possibilità di siglare una rete direttamente da tiro d'angolo, ma introduzione del limite di un tocco per una battuta che non sia una conclusione.

 

sabato 24 gennaio 2015

Napoli-Genoa, storia di un grande amore

Il gol della salvezza del barbudo Faccenda
di Vincenzo Paliotto (I giorni del Grifone, rubrica di amarcord dedicata al club più antico d'Italia)

 Napoli-Genoa è la sintesi della più grande storia di amicizia tra tifoserie che esiste nel calcio italiano. Lo chiamano gemellaggio nel rigoroso gergo ultras, ma la fratellanza diremmo noi tra napoletani e genoani parte da lontano. Da un caldo pomeriggio del 16 maggio del 1982 allo Stadio San Paolo di Napoli. Il Genoa si era lasciato battere da un derelitto Milan proprio negli ultimi minuti di gioco e rischiava seriamente la retrocessione proprio alle falde del Vesuvio, anche perché i rossoneri impegnati a Cesena sarebbero risultati matematicamente salvi in caso di sconfitta del Grifone. La situazione di classifica era dunque delicata. Un buon numero di genoani seguì la trasferta della propria squadra a Napoli, sperando in una salvezza proprio nelle battute finali del campionato.
 Quella trasferta cominciò nel migliore dei modi per i rossoblù con Massimo Briaschi che violò la porta dei napoletani dopo appena tre minuti. Intanto il Milan sul terreno del Cesena andò sotto di due gol e la domenica sembrava incanalarsi nel modo migliore per il Genoa. Nel Napoli però si impegnò allo spasimo l’interno di centrocampo Antonino Criscimanni, ex-genoano dal dente avvelenato ed intenzionato a mettere in grande affanno i genoani. Lo stesso Criscimanni pareggiò all’inizio della ripresa, mentre Musella segnò poi il gol del sorpasso, gettando nello sconforto i genoani presenti al San Paolo. Anche perché il Milan a Cesena operò un clamoroso sorpasso: da 0-2 a 3-2 in favore dei rossoneri milanisti.

giovedì 22 gennaio 2015

Esterophilia: Chivas-UNAM 1987

di Vincenzo Lacerenza (www,calciofuorimoda.blogspot.com)

Chivas Guadalajara-UNAM 2-0 (15/03/1987, trentatreesima giornata, Primera Division de Mexico)


Chivas Guadalajara: Ledezma, Lugo Barron, Quirarte, Gutierrez, De la Torre, Galindo, Mendizabal, Diaz, Rodriguez, E. De la Torre, Valdez (43' Arellano). All. Alberto GuerraUNAM: Rios, Servin, Esquivel, Salgado, Cruz, Marroquin (45' Salas), Espana, Garcia Aspe, Raya, Garcia (60' Patino), Luque. All. Mario Velarde

Marcatori: Rodriguez 8', 70'.

Arbitro: Marcel Perez (MEX)Abbastanza cervellotico il regolamento della Primera Division Mexicana 1986/1987: ai nastri di partenza ci sono ventuno squadre divise in tre gruppi da cinque e uno, l'ultimo, composto da sei formazioni. Le prime due di ogni raggruppamento si qualificano per la Liguilla finale, mentre i quattro gironcini non costituiscono criterio per quanto riguarda le retrocessione: vanno in Ascenso le due compagini con il minor numero di punti racimolati. Abolite Apertura e Clausura, il torneo si gioca sulla base di trentotto incontri, disputati senza ristrezioni legate ai gruppi. Per Chivas Guadalajara e UNAM la stagione post mondiale casalingo non è particolarmente sfiancante. Niente impegni in Concacaf Champions League, il massimo torneo calcistico riservato ai club del Nord-Centro America, e niente gare di Copa Mexico, competizione temporaneamente relegata in soffitta in attesa di ripartire l'anno successivo, ad intasare il calendario. Entrambe le compagini hanno un unico obiettivo: provare a far bene in campionato. Il Chivas rincorre un titolo che latita ormai da ben diciasette anni, mentre al collettivo universitario un successo in patria manca dai tempi di Bora Milutinovic. Per tentare la cavalcata Los Chiverios non badano a spese, operando una faraonica campagna acquisti. A spiccare sono sopratutto i nomi di Benjamin Galindo, formidabile centrocampista dal grilletto facile proveniente dal Tampico Madero, che diventerà una leggenda della selezione messicana partecipando a USA '94, e Guillermo Mendizabal, per tutti "Wendy", roccioso mediano vecchio stampo tornato in patria dopo l'infelice parentesi con gli spagnoli del Rayo Vallecano. Non solo, a cesellare l'impianto difensivo biancorosso, già forte dei veterani Fernado Quirarte, Demetrio Madero e Sergio "El Ninito" Lugo Barron, la società ingaggia dal Monarcas Morelia anche Javier Arturo Ledezma, brevilineo estremo difensore noto per i propri riflessi felini.

sabato 17 gennaio 2015

Nostalgia Cadetta: Spezia e Varese nella caotica stagione '57/'58


 

 
Giovan Battista Fabbri
di Roberto Pivato (www.calciofuorimoda.blogspot.com)


 
Spezia – Varese 4-1 (06/04/58, 24ª giornata Campionato Interregionale Prima Categoria, girone A)

 

Reti: 42’ e 86’ Corti, 52’ Beverina, 58’ Corelli, 69’ Castellazzi

 

La stagione 1957/58 fu dominata dal caos. La IV serie del calcio italiano provocava aspri contrasti tra le sfere delle varie federazioni. Da una parte la fazione del presidente FIGC Ottorino Barassi, la quale proponeva lo sdoppiamento in due gironi della serie C, aumentandone così il numero delle partecipanti che sarebbero state sottratte appunto alla categoria immediatamente inferiore; dall’altra la Lega di IV Serie, presieduta da Dante Berretti, contraria all’impoverimento di società e favorevole allo smembramento in Prima e Seconda Categoria, in modo che le promozioni in C fossero riservate alla prima. Successe di tutto: prima venne approvato il progetto di Berretti, poi venne reintegrata l’idea di Barassi; infine, fu un terzo personaggio ad imporre la sua stravagante concezione. Il neo presidente della Lega Nazionale, Giuseppe Pasquale, decise che le promozioni sarebbero avvenute esclusivamente su criteri economici ed infrastrutturali, togliendo completamente valore al merito sportivo. Una soluzione inaccettabile e svilente nei confronti del torneo che andava ad iniziare. Perciò un nuovo parziale contrordine stabilì che le prime sei di ogni girone - e sarebbero stati tre, per un totale di 48 formazioni partecipanti – avrebbero ottenuto il salto di categoria, ammesso tuttavia che avessero rispettato i criteri di cui sopra. Nessuna retrocessione era in programma. Fu quindi un torneo in cui l’agonismo e la competizione non furono delle più elevate. Spezia e Varese erano inserite nel raggruppamento A. I lombardi erano allenati da Giovan Battista Fabbri, il famoso Gibì che sarebbe salito all’onore delle cronache vent’anni più tardi alla guida della Nobile provinciale Lanerossi Vicenza; in quella stagione e nella successiva svolse il doppio ruolo di giocatore-allenatore, prima di dedicarsi esclusivamente alla carriera di tecnico. I liguri, invece, si affidarono ad un altro grande nome del football nazionale: Luigi Scarabello.

domenica 11 gennaio 2015

Esterophilia: Deportes Iquique-Colo Colo

di Vincenzo Lacerenza (www.calciofuorimoda.blogspot.com)
Colo Colo: Rojas, Garrido, Astengo, O. Rojas, L. Hormazabal, Pizarro, Jauregui (Gonzalez), Ormeno, Vera, Rubio, Gutierrez. All. Arturo Salah
Deportes Iquique (rosa): Antunez, Araya, Cantillana, G. Carreno, J. Carreno, Caucoto, Delgado, Figueroa Droguett, Ehrlich, Estay, Gomez, Gutierrez, Lobos, Marambio, Mejias, Olivera, Pacheco, Pavez, Rojas, Sarabia, Vega, Velasquez, Zamora. All. Jaime Campos
Marcatori: 21' Vera, 48' Carreno, 63' aut. Gutierrez.
Arbitro: Victor Ojeda

La Primera Divison cilena 1986 è stato un campionato all'insegna dell'equilibrio; serratissimo, con le prime cinque delle graduatoria finale racchiuse in otto punti e con la necessità di disputare uno spareggio tra la prima e la seconda classificata per l'assegnazione del titolo. Per il Colo Colo è l'anno dei grandi cambiamenti. Dopo cinque stagioni, tre coppe del Cile e due titoli nazionali, termina il ciclo di Pedro Garcia Barros, allenatore che in futuro siederà anche sulla prestigiosa panchina della Roja; prende forma invece quello di Arturo Salah, ex colonna dell'Universidad de Chile e per questo inizialmente inviso alla tifoseria colocolina. Dal mercato, poi, arrivano due importanti rinforzi: Hebert Revetria e Hugo Rubio. Cavallo di ritorno con esperienze in giro per il continente latinoamericano il primo, figlio d'arte e centravanti di grande eleganza il secondo. Proprio Rubio, che assaggerà anche le pressioni del campionato nostrano tra le fila del Bologna e Revetria, autore di quattro reti quell'anno, saranno tra i principili artefici della trionfale cavalcata colocolina in campionato.
 Al letale tandem offensivo si aggiungono le reti, quattordici in quella stagione, di Jaime Vera, volante dotato di uno spiccato senso del goal che militerà anche in Europa tra le fila dei greci dell'OFI Creta. Da non trascurare nemmeno il fondamentale apporto di gente del calibro di Jaime Pizarro, raffinato prodotto del vivaio colocolino, Juan Gutierrez, Fernando Astengo, roccioso centrale abile nel gioco aereo e Roberto Rojas, soprannominato il Condor, ma noto alle cronache internazionali sopratutto per la storia controversa a lui legata. Si sta giocando la sfida Brasile-Cile. Lo stadio è il Maranà di Rio de Janeiro. La partita è un crocevia decisivo verso i mondiali italiani del 1990. La Roja deve solo vincere, ma intanto è sotto di una rete. Al 70' un bengala spiove accanto all'estremo difensore cileno, all'epoca in forza ai brasiliani del San Paolo. Rojas si accascia a terra, si contorce, usa i guantoni per coprirsi il volto. Poi arrivano i soccorritori, entra la barella e il portiere viene portato via in una maschera di sangue. Più tardi si scoprirà che era tutta una vergognosa messinscena.

sabato 10 gennaio 2015

Inter-Genoa '73: In 20.000 a San Siro


di Vincenzo Paliotto (I giorni del Grifone, rubrica dedicata al club più antico d’Italia)
 Il periodo dell’inferno genoano era finalmente terminato. Dopo 7 anni di B ed anche uno mortificatnte in Serie C, il Genoa, il club più antico d’Italia, ritornava in Serie A e ci entrava da uno dei suoi ingressi principali. Quello della Scala del Calcio di Milano. Il 7 ottobre del 1973 a San Siro il Genoa debuttava in Serie A per quella stagione al cospetto dell’Inter. Del resto nella partita del pomeriggio meneghino si andava ad incastonare uno dei motivi principali di quell’incontro. Infatti, Mariolino Corso affrontava per la prima volta nelle vesti dell’ex la sua squadra nerazzurra, che aveva condotto qualche anno prima sul tetto d’Europa e del Mondo. Corso era approdato al Genoa nell’estate del ’73, dopo 15 anni di onorata militanza nel club nerazzurro. Corso era stato definito, comunque, da Pelè, non uno qualunque, come il miglior calciatore bianco del Mondo. Arturo Sandokan Silvestri schierò così il Genoa: Spalazzi, Maggioni, Rosato, Garbarini, Rossetti, Corso, Bittolo, Maselli, Simoni, Corradi, Bordon. Arbitro: Giulio Ciacci.

 
Genoani festeggiano ritorno in A nel '73
Tuttavia, quella partita si arricchiva di motivazioni ben più esaltanti, che soprattutto provenivano dall’impagabile tifoseria genoana. In 20.000 tifosi rossoblu raggiunsero San Siro in una delle manifestazioni di attaccamento ai colori più belli della storia del Grifone. Del resto lo spirito e l’anima dei genoani si erano ben radicati nel corso di quegli anni difficili per la squadra. I supporters genoani erano presenti ovunque, anche nelle trasferte più difficili del campionato cadetto ed in quelle più sperdute del campionato di Serie C (Macerata, Ancona, Imola ed altre ancora). Nel ’71, tra le altre, per raggiungere Sassari e sfidare la Torres (dove il Genoa peraltro vinse di misura con gol di Speggiorin) i tifosi genoani occuparono una nave intera (la Caralis) per un vero e proprio sbarco in Sardegna. Poi arrivò la domenica del 17 giugno del ’73, in cui in un Ferraris stipato, il Genoa superò di misura il Lecco (gol di Sidio Corradi), guadagnando la Serie A. Fu in quegli anni dunque che si forgiò il vero attaccamento ai colori ed il vero spirito della tifoseria genoana.

 Ad ogni modo, il Genoa in quel pomeriggio a San Siro riuscì a strappare un pareggio ad occhiali, anche grazie all’apporto dei suoi tifosi. Purtroppo, però, quella stagione si chiuse con una mesta retrocessione dei rossoblu, dopo l’illusione di potercela fare fino alla fine.

venerdì 9 gennaio 2015

Russell Latapy, The Little Magician (2a parte)

di Vincenzo Lacerenza (www.calciofuorimoda.blogspot.com)

E' buio. Ma non sembra. Le luci della discoteca entrano dallo specchietto retrovisore. Quelle della volante abbagliano il conducente. Alla guida c'è Russell Latapy. Sul lato passeggero si distingue il profilo di Dwight Yorke. La paletta è levata, la condanna scritta. Squadrato dall'alto al basso Latapy non pare aver paura, ma forse non può nemmeno percepirla. Veste casual; i dreadlock, semmai fossero stati ordinati, adesso sono elettrizzati, scarmigliati. In testa solo il frastuono della musica. In corpo alcool, tanto, a fiumi. Yorke nemmeno scende. Forse dorme, forse finge di farlo. L'agente è perentorio. Due trinidadiani, due calciatori. Affermati e fermati. Dalla polizia. Quella di Lothonian. Prima i documenti, poi il palloncino. Inspira, respira, soffia, gonfia. E niente. Inspira, respira, soffia, gonfia. E ancora niente. Il fiato latita, eroso dall'alcool. Inspira, respira, soffia, gonfia. Il palloncino finalmente prende forma, cosi come l'unico ineludibile esito: guida in stato di ebrezza. L'alcool, è tanto, troppo: tre volte oltre il limite consentito. I giorni di Latapy all'Hibernian sono invechi pochi, anzi terminati. Si va alla centrale. Scartoffie, locali angusti, luci fioche, facce tutt'altro che rassicuranti. Firma di quà, firma di là. Poi il palloncino. Di nuovo, ancora, un'altra volta. Nuovo test, nuova positività. Si alla cauzione, no al rilascio del mezzo.

mercoledì 7 gennaio 2015

Russell Latapy, The Little Magician (1a parte)

 di Vincenzo Lacerenza (www.calciofuorimoda.blogspot.com) Un nuovo, bellissimo ed originale racconto di Vincenzo Lacerenza. 1a parte
 
Una marea rossa affolla gli spalti del Queen's Oval. Trentamila cuori battono all'unisono al ritmo di soca. Tutti osservano la palla. Sul cronometro è il ventesettesimo. Un imberbe virgulto della squadra di casa riceve palla. E' al limite dell'area, qualche passò più in là c'è la lunetta, forse un po' defilato; controlla, orienta la sfera e lascia partire un destro. Cosi, di primo pelo, senza paura. Secco, pulito, senza troppi fronzoli. La postura però non è l'ideale: corpo leggermente all'indietro, baricentro basso. Sarà la fretta dettata dal pressing, sarà l'emozione suggerita dall'ansia del "non l'ho mai fatto prima", fatto sta che il risultato non può che essere uno: alto. Ma non altissimo. Le telecamere indugiano su quel viso dalle fattezze adolescenziali, poi la regia americana manda una didascalia in sovraimpressione. E' gialla, caratteri cubitali ben distinguibili, dove si legge: Russell Latapy.Ha il dieci sulle spalle, movenze eleganti, un taglio di capelli ostentatamente afro e lo sguardo del predestinato. Passano cinque giri di lancette. La sfera si sposta a centrocampo. La intercetta un ragazzo alto in uniforme bianca. E' bianco, ha il fisico statuatario e quell'arroganza imperialista tipica di chi si sente padrone del mondo. Da questi parti li ribattezzano gringos, o tutt'al più yankees. E' Paul Caligiuri, gioca nel Meppen, dove si è accasato reduce da un'esperienza fugace e infruttuosa all'Amburgo. Lui e Vermes sono gli unici due a fare i calciatori a tempo pieno. Gli altri, bè gli altri, sono un'accozzaglia di ragazzini svezzati dal college, tirati su a forza di McDonald e Coca Cola, sogni americani e fanculo ai comunisti. Ma sopratutto è statunitense, è un calciatore della nazionale e quel 19 Novembre 1989 sta affrontando il Trinidad e Tobago nell'ultima partita del girone di qualificazione verso i mondiali italiani dell'anno successivo. Si fa strada tra la selva di dreadlock, con una finta di corpo si sbarazza di un avversarsio, poi si appresta a calciare. La porta la vede, compare all'orizzonte, saranno trenta metri. Quello che lo preoccupa di più però è il rimbalzo innaturale della sfera: la palla s'impenna a mezza spanna da terra. Un effetto a rientrare, una mattana della gravità. Calcolarne la balistica sarebbe troppo scientifico, serve agire d'impulso, sullo slancio emotivo. Fisiologicamente, trascinato da sensazioni e precezioni, il sinistro impatta il cuoio roteante. Parte un arcobaleno di un solo colore, arquato quanto basta, potente quanto serve. Se all'incrocio dei pali c'era una ragnatela, adesso non c'è più. Sfuma il sogno soca, si riaccende quello yankees. Costa Rica 11, Stati Uniti 11, Trinidad e Tobago 9. Staccano il pass solo le prime due classificate. Sarebbe bastato un punto, e invece ad Italia'90 ci vanno gli Stati Uniti. A fine partita Latapy conquista nuovamente il favore delle cineprese. E' adagiato sul prato, non piange, ma vorrebbe farlo. Gli occhi sono sempre quelli del predestinato: malinconici il giusto, lucidi il normale, sintonizzati sul futuro e in cerca di rivincite. Poi farà una capatina nella spogliatoio, una doccia intrisa di rimpianti, prima di spostarsi sulle rive tiepide del fiume St.Ann. Solo con se stesso e i suoi fantasmi, farà scorrere chissà quante volte il film di quello che poteva essere e non è stato, magari ripenserà al tiro spentosi in tribuna proprio cinque minuti prima della rete che ha segnato il match. O forse se ne starà in riva al St.Ann, non pensando a nulla, convinto che una nazionale e una nazione così prima o poi avranno la loro occasione. Quando hai ventuno anni sai che prima o poi arriverà la tua chance. Non conosci tempo, luogo, come e perchè: dettagli. Basta avere fede e speranza.

martedì 6 gennaio 2015

Pino Daniele e Fabrizio De Andrè


 
Sul forum di www.grifoni.net un utente ha voluto ricordare così Pino Daniele ed il suo rapporto con il mare e con Fabrizio De Andrè. Ogni commento ci pare superfluo. Grazie

Maxpra 05/01/2015 - 15:40

Pino Daniele e Fabrizio De Andrè

Ho visto per la prima volta in concerto Pino Daniele poco piu' che sedicenne, il 28 giugno 1980. Posso risalire facilmente alla data perchè conservo gelosamente il biglietto del concerto di Bob Marley, che insieme a quello dei Clash e dei Police, fa parte dei miei concerti memorabili.
In quella occasione, insieme a Roberto Ciotti (buon bluesman romano) e l'Average White Band (tipica band funky anni '70), Pino Daniele faceva parte dei gruppi di apertura del concerto. Da allora l'ho iniziato ad apprezzare e a seguire e alla fine è stato il musicista che ho visto piu' volte dal vivo, insieme a De Andrè, il mio musicista italiano preferito.
Sono stati molto diversi per stile, contenuto e linguaggio. Ma hanno anche avuti importanti tratti in comune. Per contaminazione di culture e di generi musicali sono stati cittadini del mondo. Ma al tempo stesso sono stati profondamente legati alle loro radici, alla loro lingua e alle loro città. « Napule è » e « Creusa de Mâ » sono come inni di Napoli, di Genova, del Mediterraeneo.
Hanno poi condiviso l'attenzione ed il rispetto per i piu' deboli e le minoranze. Penso a « Princesa » e mi viene alla mente « O Scaraffone ».
Infine, gli inevitabili riferimenti al mare, profondi nella loro semplicità. Mi è capitato di leggere bellissime poesie sul mare. Ma i versi con i quali mi identifico piu' profondamente e frequentemente, come genoano e genovese, sono di De Andrè e di Daniele.
« Odô de mâ messciou de persa légia » Facile parlare del piacere che procura la vista del mare, piu' originale parlare del suo odore quando si mischia con gli elementi della natura.
Per me che vivo all'estero da 11 anni, in mezzo alle alpi a 500 metri dal mare, oltrepassare il casello autostradale di Masone e vedere dietro una curva il mare vuol dire solo « incominciare » a sentirsi a casa. A casa mi sento quando scendo le scalette di Boccadasse e sento l'odore del mare. De Andrè parlava di maggiorana, ma potrebbe essere anche rosmarino, basilico o il leppego degli scogli che si mischia col mare. L'importante è sentirne l'odore.
Daniele diceva « chi tiene o mare o sape che è fesso e cuntento ».
Tellaro, Portovenere, Baia del Silenzio, Portofino, San Fruttuoso, Camogli, Scogliere di Nervi, Boccadasse, Noli, Varigotti, Cervo e Bordighera. Quante volte sono stato in quei posti e mi sono venuti alla mente i versi di Pino Daniele : chi tiene il mare è fesso e contento.

Un saluto e Forza Genoa

 

lunedì 5 gennaio 2015

I giorni del Grifone: Il capolavoro di Onorati


di Vincenzo Paliotto (I giorni del Grifone, rubrica di amarcord dedicata al club più antico d'Italia)
 
Un pesante nubifragio abbattutosi su Genova e tutta la Liguria aveva fatto saltare il match di campionato del Feraris contro l’Atalanta. Il campo era praticamente inzuppato, scatenando gravi polemiche. Il Ferraris aveva prima di Italia ’90 uno dei migliori manti erbosi del pese, dopo la rassegna iridata invece lo stesso terreno di gioco non aveva più la stessa tenuta. Comunque, il match contro gli orobici fu spostato al giorno successivo del lunedì 14 gennaio del 1991, con un Genoa ben posizionato in classifica, ma reduce da due sconfitte consecutive. Due sconfitte particolarmente amare, scaturite da un’autorete di Simone Braglia al Sant’Elia di Cagliari e per 2-1 a San Siro contro l’Inter, in una partita tutto sommato equilibrata.

 Ad ogni modo, l’Atalanta si presentava come un avversario indubbiamente scomdo. Squadra ostica ed in un ottimo momento della sua storia calcistica. Il buon Osvaldo Bagnoli caricò però l’ambiente nel modo giusto ed il Genoa chiuse la pratica orobica nella prima frazione di gioco. Il Genoa giocò con: Braglia, Torrente, Branco, Eranio, Caricola, Signorini, Ruotolo, Bortolazzi, Aguilera, Skuhravy e Onorati. Frosio per l’Atalanta rispondeva con: Ferron, Contratto, Pasciullo, Porrini, Bigliardi, Progna, Bordin, Bonacina, Evair, Nicolini e Caniggia. Arbitro: Guidi di Bologna.  

 Il mattatore di giornata fu prorpio uno dei pupilli del Mago della Bovisa, quel Roberto Onorati, persino bistrattato da qualche suo predecessore, ma che si rivelò una pedina fondamentale per quel Genoa di formato europeo. Vice di Antognoni e Baggio nella sua militanza viola, Onorati era dotato di un gran piede, ma anche di un tiro dalla distanza, capace di condannare anche i migliori portieri tra i pali. La sua prodezza personale di quel lunedì pomeriggio, però, andò oltre. Progressione in dribling sull’out mancino, supera in slalom due, tre avversari e quindi tiro a girare con il destro sul palo lungo, che batte inesorabilmente l’estremo difensore bergamasco. E’ una prodezza che rimane nel cuore dei genoani. La grande giornata dei Grifoni viene poi completata da Tomas Skuhravy, che di prepotenza ed astuzia sigla un gran gol dopo la mezz’ora del primo tempo, su un lancio impeccabile del solito Bortolazzi. Il Genoa sale al 6° posto in calssifica, con 17 punti ed in coabitazione del Torino.

 

venerdì 2 gennaio 2015

Esterophilia: Maccabi Haifa-Beitar Gerusalemme


di Vincenzo Lacerenza (calciofuorimoda.blogspot.com)
Maccabi Haifa-Beitar Gerusalemme 1-1 (Haifa, 21 Agosto 2004, Liga ha'Al, prima giornata)


Maccabi Haifa: N.Davidovich, Benado, Badir, Goncalves, Uzan, Grahib, Roso, Gazal, Tal (64' Katan), Boccoli (80' Zandberg), Colautti. All. Ronny Levy


Beitar Gerusalemme: Kornfein, Ferreira, Danin, Amsalem, Atiya, Malichi, Baruchyan (71' Heidemann), Melikson (80' Sasson), Kldira, Asulin, Yitzhaki (22' Solomon). All. Eli Ohana


Marcatori: 38' Roso, 51' Hodida

Conquistato il terzo titolo nazionale in quattro anni al termine della stagione 2003/2004, il Maccabi Haifa si appresta a vivere l'ennesima stagione da favorita per la vittoria finale. Prestigioso si, ma anche obblighi e pressioni di non facile gestione. Specie se oltre alla riconferma domestica viene richiesto anche un salto di qualtà oltre i confini nazionali. Nelle ultime campagne continentali, solo in un'occasione i Verdi sono riusciti a scavallare il barrage dei preliminari di Champions League. Accadde nella stagione 2002-2003, quando superati i bielorussi del Belshina e gli austriaci dello Sturm Graz, si ritrovarono nel girone assieme a Manchester United, Bayer Leverkusen e Olympiakos. Sfide affascinanti, grande calcio, ma alla fine l'unico verdetto possibile: inglesi e tedeschi staccano il pass per il turno successivo, mentre gli israeliani precedono i greci e vengono declassati in Coppa Uefa: sempre meglio che uscire dai radar europei. Nella competizione meno nobile d'Europa, i Verdi avranno vita breve, strapazzati ed estromessi ai sedicisimi di finale dai greci dell'AEK Atene. Con le prime luci della nuova stagione alcuni dei protagonisti delle cavalcate passate, ringraziano e migrano verso altri lidi. Tra le partenze spiccano quelle di Eric Eijofor, coriaceo difensore nigeriano con all'attivo trentasei presenze ed una rete, e di Marcos Paulo, mediano brasiliano tornato in patria al Guaranì. Lasciano anche Pavel Zavadil, destinazione Banik Ostrava, e Zoran Zekic, ventenne attaccante traslocato alla Dinamo Zagabria. In entrata arrivano alcuni tasselli che si riveleranno decisivi per gli anni avvenire. Sbarcano Ravid Gazal, centrocampista dal baricentro basso proveniente dal Maccabi Netanya, Ori Uzan, anch'esso prodotto del vivaio del Netanya con un destino beffardo che lo porterà a chiudere precocemente la carriera per un infortunio alla colonna vertebrale, ma sopratutto tra le insenature del porto di Haifa attracca Roberto Colautti. Classe '82, innato senso del goal, e una cittadinanza che è un rebus: possiede infatti il doppio passaporto argentino e italiano, il trisavolo è friuliano. Poi otterrà anche quella israeliana, proprio per non farsi mancare nulla. Colautti arriva dal Boca Juniors: altro club, altro calcio, altre atmosfere. Un contatto con il Vecchio Continente però, in verità, l'ha già avuto. Non positivissimo: un'esperienza al Lugano conclusa con nove apparizioni e nemmeno un goal. Insomma si può migliorare, e poi nel 2002, anno dell'approdo in Svizzera, era forse ancora troppo acerbo per il livello calcistico europeo. Due anni dopo è tutto diverso: è più maturo, la gavetta a Banfield ne ha forgiato il carattere ed irrobustito le spalle. E poi Haifa è l'habitat ideale per crescere. C'è un vecchio adagio ebraico che dice: "A Gerusalemme si prega, a Tel Aviv ci si diverte e ad Haifa si lavora". Insomma gli ingredienti ci sono tutti, non resta che iniziare.