di Vincenzo Lacerenza
Ottorino Barassi era un uomo dotato di una spiccata prontezza di spirito. Ingegnere, non a caso nel 1933 era stato nominato segretario generale della F.I.G.C. con l’incarico di organizzare il mondiale casalingo dell’anno successivo. La nazionale di Pozzo conquisterà quell’edizione non senza ombre politiche, bissandola quattro anni dopo in Francia. Unica squadra insieme al Brasile di Pelè capace di vincere la Coppa del Mondo per due edizioni consecutive. Ma siamo nel 1938. Venti di guerra spirano sull’Europa, il fascismo impera in Italia, il nazismo progetta l’invasione della Polonia. Il Patto d’Acciaio è alle porte. La guerra prenderà forma da lì a poco, finendo per fagocitare anche i Mondiali di Calcio. Ma non la coppa Jules Rimet. Una statuetta raffigurante una vittoria alata, retta da un coppa decagonale poggiata su un piedistallo di marmo a base ottagonale. Un’opera partorita dal genio artistico di Abel Lafleur, uno dei più rinomati scultori dell’epoca.
Tremilaottocento grammi, milleottocento dei quali
in argento “sterling” placcato in oro. Impossibile non sedurre le
attenzioni naziste durante il conflitto. Servono fondi, l’oro della coppa fa
gola alla Gestapo d’istanza a Roma.
L’abitazione romana dell’ingegnere nonchè vice presidente della FIFA diviene
subito l’obiettivo dei gendarmi al soldo del Fuhrer.
Una mattina, la Gestapo accompagnata anche da una
rappresentanza delle SS, proprio per non far mancare
nulla, irrompe nell’abitazione di Piazza Adriana in cerca della
preziosa reliquia. Il tono non è di quelli amichevoli. Voglia di scherzare
poca. Barassi rimane in silenzio ad ascoltare le richieste.
Per educazione, ma anche per paura. Poi guarda negli occhi i propri
dirimpettai, non si fa intimorire dalle svastiche e inizia a controbattere.
Afferma di non custodire la coppa, dice di averla lasciata in delega ai
dirigenti di CONI e Federazione a Milano.
I tedeschi però, si sa, sono gente precisa, attenta
e difficilmente affabile. Seguono alla lettera l’esempio di San Tommaso. Vedere
per credere. Iniziano così a mettere a soqquadro la casa dell’ingegnere. Dal
salotto alla cucina, dalla camera da letto al bagno passando per lo sgabuzzino.
Le ricerche però non danno gli esiti sperati dai crucchi. I tedeschi finalmente
rassegnati decidono di abbandonare la residenza di Barassi.
Missione compiuta, pericolo scongiurato. Ottorino Barassi è a suo modo un
eroe.
Lui, l’ingegnere, può finalmente tirare un lungo
sospiro di sollievo: ha salvato la coppa Jules Rimet dalle brame del Fuhrer.
Ma a proposito, dov’è la Coppa? Semplice, sotto il letto. Incredibile come agli
emissari del Terzo Reich non fosse balenata in mente l’idea di
sbirciare sotto il giaciglio. Forse dalle parti di Berlino
hanno nascondigli più sofisticati, ma di sicuro non più efficaci.
L’impresa non finirà nel dimenticatoio, l’eco
giungerà fino al 1968 quando le federazioni italiane ed inglesi in seduta
comune decideranno di intitolare a suo nome la Coppa delle Coppe di Lega
Italo-Inglese. Giocata con la formula del doppio confronto
andata-ritorno la coppa veniva disputata tra la vincente della Coppa Italia
Dilettanti e quella della Coppa d’Inghilterra riservata alla
medesima categoria, o della Seconda Divisione dell’Ishtmian
League. Insomma vero football, quello lontano dalla luce dei
riflettori, quello capace di entusiasmare in un anonimo pomeriggio su un
campetto acciottolato di periferia. Due scuole calcistiche a contendersi la
palma della migliore, a rivaleggiare più per l’onore che per una mostrina in
più da appendere sull’uniforme.
Prima edizione e primo successo di una compagine di
Sua Maestà. L’Italia è rappresentata dalla STEFER Roma
(Società delle Tramvie e Ferrovie Elettriche di Roma), beffata in casa 2-2 dai
londinesi del Leytonstone dopo aver impattato 1-1 nella City.
Coppa agli inglesi per la crudele legge delle reti in trasferta. Curiosità: la
gara di ritorno si gioca allo Stadio Olimpico come antipasto di Roma-Juventus
e può contare su una suggestiva cornice di pubblico.
La tendenza non si inverte negli anni seguenti.
Anzi, le squadre anglofone cementificano ancor di più la loro supremazia. Dopo
un ex
aequo, sancito dal doppio 2-0 tra Almas Roma e il North Shields,
nel 1970 la coppa torna in terra d’Albione. Ad aggiudicarsela è l’Enfield.
La blasonata formazione londinese condanna i bergamaschi del Ponte San
Pietro con un perentorio 3-0 a Southbury Road.
Utile solo agli statistici la vittoria degli orobici per 2-1 al ritorno in
Lombardia.
Prima edizione e primo successo di una compagine di
Sua Maestà. L’Italia è rappresentata dalla STEFER Roma
(Società delle Tramvie e Ferrovie Elettriche di Roma), beffata in casa 2-2 dai
londinesi del Leytonstone dopo aver impattato 1-1 nella City.
Coppa agli inglesi per la crudele legge delle reti in trasferta. Curiosità: la
gara di ritorno si gioca allo Stadio Olimpico come antipasto di Roma-Juventus
e può contare su una suggestiva cornice di pubblico.
La tendenza non si inverte negli anni seguenti.
Anzi, le squadre anglofone cementificano ancor di più la loro supremazia. Dopo
un ex
aequo, sancito dal doppio 2-0 tra Almas Roma e il North Shields,
nel 1970 la coppa torna in terra d’Albione. Ad aggiudicarsela è l’Enfield.
La blasonata formazione londinese condanna i bergamaschi del Ponte San
Pietro con un perentorio 3-0 a Southbury Road.
Utile solo agli statistici la vittoria degli orobici per 2-1 al ritorno in
Lombardia.
E’ il 4 Novembre 1976. Sono giorni
difficili nel Nord Italia, le incessanti precipitazioni mettono a repentaglio
la regolare disputa dell’incontro. Ma la storia non può aspettare. Non oggi.
Sugli spalti oltre agli impavidi spettatori sprezzanti delle raffiche di vento
sono presenti anche Artemio Franchi, l’allora
presidente federale e Gigi Peronace, all’epoca
accompagnatore della Nazionale. In un campo fangoso ai limiti della praticabilità
si ripete il risultato dell’andata. Per vincere bisogna sudare ancora un po’.
Ogni goccia di sudore versata è un passo in avanti verso la gloria. Ai rigori i
tiratori lombardi sono implacabili, un po’ meno gli inglesi. Risultato: 5-3 per
la Soresinese e trofeo finalmente sollevato al cielo da
mani italiane. Ottorino Barassi sarebbe contento. Lui, icona di un
calcio che non esiste più se non nei ricordi dei nostalgici appassionati.
Eponimo di questa manifestazione finita troppo presto nel dimenticatoio. Forse
meglio così, perchè il dimenticatoio deve essere un luogo bellissimo. Al riparo
dalle bollicine dell’ovvio e più vicino alla vera essenza delle cose.
C era un calciatore di nome Ivo o Ivano?
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