martedì 14 ottobre 2014

Quando l'Uganda sfiorò la vittoria in Coppa d'Africa


di Vincenzo Lacerenza
 
Quando John Hanning Speke e James Augustus Grant scoprirono le sorgenti del Nilo, in Africa Orientale imperavano i regni tradizionali. Uno dei più grandi ed estesi era quello di Buganda. Dal Lago Kyonga al Lago Vittoria, dal Nilo Vittoria al Lago Alberto. Governato dai kabaka, nome luganda dei sovrani locali, non fu mai conquistato da coloni inglesi. Questione di orgoglio, di identità, di tradizione. Fu infatti il kabaka Mwanga ad accettare lo status di protettorato britannico nel 1894. Importante per le piantagioni di cotone e caffè e sede di un nevralgico snodo ferroviario che collegava Mombasa a Kampala, il paese perse la condizione di protettorato britannico con l’indipendenza arrivata nel 1962. Precisamente il 9 Ottobre 1962, data in cui il re Mutesa II venne affiancato alla guida del paese dal primo ministro Milton Obote.

Una convivenza forzata, mal digerita sopratutto dal katikiro, letteralmente il consigliere, Obote. Da consumarsi nella nuova capitale. Non più Entebbe, ma bensì Kampala. La città sorta attorno al forte eretto nel 1890 da tale Frederick Lugard e adagiata sulle tondeggianti colline Nakasero. Non molto distante dalle sterminate rive del Lago Vittoria e dalle vorticose cascate Ssebziwa. Dopo quattro anni di finta sopportazione, nel 1966 Obote da la stura agli istinti antimonarchici e con l’aiuto di apparati deviati dell’esercito assalta il palazzo presidenziale. Inevitabile l’esilio di Mutesa II. Col sovrano fuori gioco e dopo l’immancabile modifica costituzionale dell’anno successivo, Obote inizia a governare l’Uganda, nome swahili con la quale era conosciuta la parte meridionale del regno di Buganda. Ma chi di spada ferisce di spada perisce. Il contrappasso di Obote si materializza nel 1971, circa dieci anni dopo l’indipendenza del paese. La notte del 25 Gennaio 1971 è una notte dai lunghi coltelli. Colpi di mortaio squarciano le tenebre. I golpisti capeggiati da Idi Amin Dada entrano a Kampala. Stringono d’assedio le caserme, si impossessano dei nuclei del potere fino a far cadere il governo di Obote.

Inizia così la dittatura di Amin Dada, ex luogotenente proprio del deposto primo ministro. Inizialmente salutata con favore dalle potenze Occidentali, specie per la deriva comunista assunta da quella precedente , sarà una delle più sanguinarie di tutta la storia politica del Continente Nero. Probabilmente una delle tante pagine rimaste incollate nel grande libro della storia. Appena insediatosi al potere Amin Dada inizia le repressioni e le persecuzioni nei confronti delle minoranze etniche. Ad entrare nel mirino dell’istrionico dittatore sono sopratutto le popolazioni nilotiche settentrionali. Amin teme infatti la superiorità numerica nell’esercito degli acholi e dei langi. Ne ordina l’eliminazione cosi come chiede l’allontanamento dal paese degli asiatici, a sua detta troppo ingerenti nelle questioni economiche.

Lo chiamano Big Daddy, per via della sua statuaria imponenza fisica. Evidentemente però un solo soprannome non basta per appagare il suo ego smisurato. Conia allora lui stesso l’appellativo con cui ama essere identificato e adorato: “Sua Eccellenza il presidente a vita, feldmaresciallo Al Hadji dottor Idi Amin, VC, DSO, MC, signore di tutte le bestie della Terra e dei pesci del mare, e conquistatore dell’impero britannico in Africa in generale e in Uganda in particolare“. Tra una strizzatina al colonnello Gheddafi ed un’altra agli indipendentisti scozzesi, Big Daddy deve guardarsi le spalle dai sostenitori lealisti ad Otobe e da Otobe stesso, ospitato nel frattempo dalla Tanzania. Il leader spodestato sta provando a riorganizzare le milizie per tentare il controgolpe. D’altronde la vendetta è un piatto da servire freddo. Per farlo conta sul supporto, nemmeno troppo tacito, della Tanzania. L’appoggio del presidente tanzaniano Julius Nyerere contribuisce ad inasprire le tensioni ed ad innalzare una cortina di ferro tra i due paesi. Venti di guerra iniziano a spirare in Africa Orientale. Il conflitto appare inevitabile. Sarà inevitabile.

Nel 1978 l’Uganda è un paese sull’orlo di un conflitto fratricida con la Tanzania, funestata dal potere bulimico del suo dittatore e attraversata da tensioni e contraddizioni di ogni genere. Nel 1978 è in programma però anche la Coppa d’Africa. Dopo due eliminazioni consecutive al primo turno, le Gru, soprannome con quale sono conosciuti i calciatori ugandesi, vogliono provare a rasserenare il clima attraverso ottime prestazioni in campo. Una panacea calcistica in cui affogare le ansie per un futuro poco futuribile.

 

La selezione di Peter Okee si qualifica superando l’Etiopia nel secondo turno con un 2-1 tra le mura amiche dopo un pareggio a reti inviolate ad Addis Abeba. La manifestazione ospitata dal Ghana prende il via il 5 Marzo 1978 con la vittoria della selezione di casa sullo Zambia. Una vittoria di misura per 2-1. Sofferta oltre le aspettative, ma importante per lanciare un messaggio alla concorrenza. Dopo i due allori consecutivi del 1963 e del 1965 e le due piazze d’onore ottenute nel 1968 e nel 1970, le Black Stars hanno disertato l’appuntamento con la massima competizione calcistica africana per ben tre edizioni consecutive. Una ferita troppo grande per una delle scuole calcistiche egemoni dell’universo africano. Da rimarginare alzando il trofeo sotto le stelle nere di Accra.

Tra le rivali più accreditate ci sono il Marocco, campione uscente e la sempreverde Nigeria. La Costa d’Avorio e il Mali poi nemmeno vi partecipano. Entrambe le formazioni vengono squalificate per irregolarità commesse nei precedenti turni di qualificazione. Una sliding door in cui si infila di prepotenza la selezione dell’Alto Volta, l’odierna Burkina Faso. Il destino riserva all’Uganda il gruppo B. La compagnia è gradevole, ma da non sottovalutare. Sistemate nello stesso girone ci sono la Tunisia, il Congo-Brazzaville, ma sopratutto il Marocco detentore del trofeo.

Le Gru iniziano il loro cammino a Kumasi. Nella Garden City, gli uomini di Okee si impongono con un perentorio 3-1 sul Congo-Brazzaville. Segnano Omondi, Semwanga e Kisitu. Ma è il primo goal a suscitare maggior interesse. Siglato al primo minuto, da un numero uno assoluto. Philip Omondi, un numero primo. Divisibile soltanto per il riflesso di se stesso, ma senza il vezzo della solitudine. Un solo uomo, ma non un uomo solo e da solo. Un uomo sospinto e accompagnato da una squadra e da un paese intero.

Dotato di un innato fiuto del goal, il suo ex allenatore David Otti lo ricorda così: “Nessun ugandese potra mai eguagliarlo, poteva cambiare la partita in una frazione di secondo. Non ho mai visto un giocatore come lui“. Otti non era un semplice allenatore. Era un padre putativo, un mentore. Quando nel 1973 Robert Kiberu sbarra le porte della nazionale bugandese ad “Omo” lui è l’unico a non nutrire dubbi sul talento del ragazzo. “Aveva un talento unico, me ne sono accorto quando mi allenavo con lui in campo”.

Strappato al pugilato, via indicatagli dal suo amico Shadtack Odhiambo, ex pugile professionita, il giovane Omondi si avvicina al calcio in maniera del tutto casuale. Nel 1969 si ritrova a palleggiare per diletto di fronte all’ostello Lugogo. Lo stesso dove la nazionale ugandese alloggia in vista della CECAFA Cup in programma quell’anno. L’abilità da giocoliere e la rara sensibilità del piede attirano l’attenzione del tecnico Burkhard Pepe e del team manager Andrew Wassaka fino a spingerli ad assoldare l’imberbe Philip come raccattapalle. E’ la scintilla: l’anno successivo entra nel settore giovanile del Naguru. Poi passa al Fiat Fc dove rimane fino al 1973, quando il suo talento cristallino non sfugge all’occhio temprato di Bidandi Ssali, allenatore del Kampala City Council FC, una delle più blasonate compagini del paese.

Arrivato nella capitale a sedici anni insieme al compagno Tom Lwanga vi rimarrà fino al 1979. Non mancheranno gli allori come i due titoli ugandesi consecutivi conquistati nel 1976 e nel 1977. La carriera di Omondi rischia però di interrompersi bruscamente nel 1976, quando a seguito di una violenta collisione col portiere del Kilembe, Kikomeko, riporta lo spappolamento del pancreas. La situazione è drammatica, si teme per la sua vita. Il parere degli esperti non lascia speranze: se sopravviverà sicuramente non potrà più tirare a calci un pallone. Il destino non ha però fatto i conti con la scorza ruvida dell’ugandese. Philip è tenace, si allena e dopo tre interventi chirurgici è pronto a fare ritorno sul rettangolo verde. E’ il 22 Giugno 1977, il KCC sfida il NIC, ma per tutti è il giorno della resurrezione di Omo. Uno come Omondi però non può limitarsi alla sola presenza. Fa le cose in grande: segna uno dei tre goal con la quale la compagine capitolina condanna alla sconfitta il NIC. E’ la rinascita. Ad un anno dalla Coppa d’Africa, competizione in cui finora ha deluso, Omondi è pronto a disputare un torneo da protagonista. Andrà probabilmente oltre le più rosee aspettative.

 

Dopo l’esordio contro il Congo-Brazzaville bagnato dal goal, arriva la rovinosa sconfitta contro la Tunisia. Per ironia della sorte con lo stesso punteggio col quale l’Uganda si era imposta nel primo incontro. Per le Gru timbra il cartellino Musenze. Una rete che serve soltanto a lenire il passivo reso pesante dalla reti di Labidi e dalla doppietta di Ben Aziza. La sconfitta può essere fatale, ma ancora non tutto è perduto. Nell’ultima partita del girone occorre la vittoria. Nient’altro che la vittoria. Solo e soltanto la vittoria. L’ostacolo da superare è il più alto: il Marocco campione in carica. Serve una grande Uganda. Occorre il miglior Omondi. Davanti ai ventimila cuori dello Stadio Comunale di Kumasi, le Gru annichiliscono i Leoni d’Atlante con un 3-0 che non ammette repliche. Oltre alle reti di Godfrey Kisitu e Nsereko non può mancare la prezzemolina marcatura di Philip. Perché come afferma il noto giornalista ugandese Hassan Badru ZziwaPer Omondi segnare è più naturale di respirare”.

Superato il primo turno e con un Omondi decisivo come non mai sognare in grande non è più vietato. Anche l’utopia deve fare i conti con la classe del numero 15 in maglia rossa. In semifinale a sbarrare la strada alle Gru c’è la sempre temibile Nigeria. Le Super Aquile di Lagos sono reduci dal terzo posto ottenuto nell’edizione precedente e tra le proprie file annoverano giocatori di buona levatura tecnica come Martin Eyo e Adoki Amesiemaka. L’Uganda non avverte l’emozione e all’11’ passa con Nasur. Nella ripresa le Super Aquile inseriscono Eyo al posto di Cristopher Ogu, impalpabile fino a quel momento. La scelta paga i suoi dividendi al 54’ quando il neoentrato infila Ssali e riporta in equilibrio le sorti dell’incontro. Tutto da rifare per le Gru. Nessun problema, ci pensa Omondi. Riceve un preciso filtrante da Kisitu, ondeggia col pallone, dribbla tre difensori avversari e dopo un paio di finte fulmina l’impotente Okala. Tom Lwanga, arcigno difensore di quella selezione fotografa il momento: “Tutti guardiamo. Omondi finta il tiro e Okala cade a terra goffamente. Non è finita. Okala si ridesta, ma Omondi lo sbeffeggia con una seconda finta. Poi una terza, con Okala che si tuffa nella direzione sbagliata, lasciando ad Omondi la porta spalancata per segnare”. L’Uganda è in finale. Si parte per Accrà, dove ad attendere le Gru c’è la selezione di casa trionfante nell’altra semifinale a scapito della Tunisia.

E’ il 16 Marzo 1978. Un clima di festa accoglie le due squadre all’Accrà Sport Stadium. Ottantamila occhi vispi, accesi, vivi in cui scorre la pellicola di una vita piena di sacrifici e densi di speranza per un successo tanto aspettato. Tra le ali di folla festante si scorgono anche i kanzu, i tradizionali costumi ugandesi. Il pubblico però sarà un prezioso alleato delle Stelle Nere. Lo si intuisce quando un boato disumano precede il fischio d’inizio dell’arbitro libico Youssef El Ghoul. Dopo un’iniziale fase di studio, al 38’ arriva la svolta: Afriye si infila in un buco lasciato dalla retroguardia ugandese e con un morbido pallonetto castiga l’uscita scriteriata di Ssali. L’Uganda vestita di rosso non riesce a reagire. Omondi si sbatte ma, lasciato troppo spesso isolato dai compagni, viene arginato senza molti affanni dai centrali ghanesi. Il sipario cala al 64’ quando ancora Opoku Afriye scatta in contropiede, non si fa ipnotizzare da Ssali e sigla la rete del raddoppio. I restanti minuti scorrono via beffardi e sfuggenti, una lenta agonia irreversibile fino al triplice fischio finale.

Il Ghana è campione d’Africa per la terza volta nella sua storia. Le Gru hanno spiegato le ali volando in territori inesplorati. Una vetta mai scalata né prima né dopo. Quelle Gru resteranno per sempre nel cuore degli ugandesi. Era l’Uganda timonata in panchina da Peter Okee e in campo da Philip Omondi, spalleggiato da gente come Tom Lwanga, Jimmy Kirunda e Godfrey Kisitu. Due leader accomunati anche dalla sfortuna. Okee, prima di diventare allenatore delle Gru, fu costretto ad archiviare la carriera da giocatore a causa di due gravi infortuni: uno alle costole e l’altro alle ginocchia. Un allenatore dalla disciplina ferrea ma dall’animo gentile come ricorda Peter Okech, suo capitanto ai tempi del Prison FC. “Fuori dal campo era un fantastico gentiluomo”. Secondo Jimmy Bakyayta Semugabi, ex compagno di nazionale, la sua dote maggiore era la grande forza di volontà “ Non posso descrivere Okee come un grande talento, ma aveva un senso del lavoro talmente alto che bastava anche per il talento che non aveva”. Nasur, attaccante ugandese a segno nella rassegna del 1978 preferisce ricordarlo con un aneddoto: “Okee ci faceva allenare sulle rimesse laterali a lunga gittata, come quello che abbiamo visto fare a Rory Delap”. Insomma una persona a trecentosessanta gradi, capace di portare l’Uganda ad un traguardo mai nemmeno sfiorato da nessun’altro.

Pochi mesi dopo quell’eccezionale risultato in coppa d’Africa scoppierà l’ineluttabile conflitto con la Tanzania. Gli ugandesi lo chiameranno la Guerra di Liberazione perché porterà alla destituzione del tiranno Amin Dada. Omondi lascerà la patria ed emigrerà in cerca di fortuna e di soldi negli Emirati Arabi Uniti, dove aprirà e chiuderà una parentesi dal 1979 all’1983. Anno in cui, mosso da saudade tornerà al KCC, dove contribuirà attivamente alla conquista di due scudetti ugandesi nel 1983 e nel 1985 e due Coppe Kakungulu nel 1984 e nel 1987. Assaggerà con alterne fortune anche la carriera d’allenatore prima di morire il 20 Aprile 1999 in seguito ad una tubercolosi. Una triste fine per un calciatore di cui non possiamo apprezzare le qualità in video di repertorio o altre amenità simili. Un calciatore le cui gesta sono custodite gelosamente nei cuori ovattati degli ugandesi. Roba da far invidia.

 

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