lunedì 29 giugno 2015

Gol di Masopoust


di Vincenzo Paliotto (tratto da Gol Mondiali, Edizioni in Contropiede)

 Terminata la stagione scolastica, trascorrevo gran parte delle mie vacanze estive a divorare notizie di calcio sui rari, per la verità, quotidiani sportivi che mi passavano tra le mani. Ricerche di risultati, notizie e curiosità di ogni genere che mi dessero una maggiore conoscenza e profondità del fenomeno calcistico. In famiglia se ne parlava tanto e nelle interminabili partite di calcio in cortili e campetti di fortuna si tentava di emulare, con molta fatica per la verità, le gesta di campioni più o meno noti. I tempi delle notizie calcistiche via web erano lontanissimi, praticamente neanche immaginabili, mentre il piccolo schermo dedicava un tempo limitato alla cultura calcistica e alle vicende del pallone in generale. Trasmissioni spesso mandate in onda in tardo orario e non sempre con una frequenza logica e prestabilita dal palinsesto. Nel notiziario di Sportsera, che molte volte peraltro durava pochissimo, si tentava di carpire quello che accadeva intorno al mondo del pallone, con estrema attenzione al fattore agonistico, anche perché il gossip dedicato ai calciatori era fortunatamente pressoché inesistente. Più che altro la nostra generazione calcistica veniva tenuta in compagnia dalla voce di Michele Plastino e dai suoi racconti anche patetici, ma belli ed efficaci, sulle tv private. Tuttavia, qualcosa di affascinante accadeva in prossimità della Coppa del Mondo, quando invece venivano mandate in onda i racconti iridati delle precedenti edizioni iridate. Era chiaro che prima del pomeriggio infuocato e fantastico del Sarrià di Barcellona, in cui Paolo Rossi fece piangere il Brasile, così come lui stesso ha di suo pugno scritto, i brasiliani fossero la scuola calcistica mitica ed insuperabile per eccellenza. Nessuno, infatti, a livello mondiale aveva vinto quanto i brasiliani. Tre titoli iridati conseguiti durante la storia fortunata di quella che si chiamava la Coppa Rimet ed il tris in ambito mondiale sembrava una chimera per tutti. Dei brasiliani oltretutto si temeva anche la supponenza. Superato lo choc del Maracanà del 1950, gli auriverdi avevano finalmente trovato la concentrazione e la maniera per imporsi all’attenzione mondiale per la gioia di un popolo, che tra dittature e povertà varie, viveva il suo o quasi unico momento di gloria intorno alle gesta della sua Selecao. I brasiliani riuscivano a salvaguardare maggiormente il loro patrimonio calcistico, che era indiscutibilmente quello di Pelè che neanche le loro risorse minerarie, assoggettate completamente e senza neanche troppo mistero dalla politica e dalla prepotenza degli americani.

 Ad ogni modo, ci fu un’edizione in cui il Brasile non riuscì a registrare il suo incondizionato dominio. Successe non molto lontano dai confini brasiliani e più precisamente nel vicino Cile, che aveva avuto l’onore di organizzare al Coppa Rimet del 1962, grazie ai buoni uffici e al carisma di Carlos Dittborn, che aveva intenzioni serie nel risollevare le sorti economiche del paese andino. Il Brasile sbarcava in Cile con la statuetta della Coppa Rime tra le mani e quasi nulla faceva presagire che gli stessi auriverdi se ne fossero tornati a casa senza la stessa Coppa. La loro superiorità in ambito mondiale era riconosciuta e temuta. Aymorè Moreira, il selezionatore dei brasiliani, aveva dovuto in parte rivedere i suoi piani, anche se nella sostanza cambiava poco. Orlando fu lasciato a casa, insieme a Bellini, in quanto era andato a giocare fuori dai confini nazionali, e cioè al Boca Juniors, così come qualche altro iridato. Poi per il resto ci si affidava ovviamente alla grandezza di Pelè e alla sua irresistibilità. Ma il calcio, anche quello, stava cambiando a ritmi vertiginosi, così come erano elevati i ritmi delle prestazioni di ‘O rey, che correva da una parte all’altra del mondo con la maglia del Santos o del Brasile addosso, disputando ovunque amichevoli e tornei alla ricerca di lauti ingaggi. Una delle tante volte che il Santos viaggiava alla volta dell’Europa per una tourneè fu rispedito indietro. Pelè era infortunato e gli incassi delle amichevoli non sarebbero stati gli stessi. La gira del Santos fu per questo annullata. Battuto il Messico nella prima partita per 2-0, con un gol di Pelè, tra le altre cose, le fortune della Perla Nera in quell’edizione del Mondiale finirono lì. Infatti, nella successiva partita contro la Cecoslovacchia Pelè riportò un infortunio muscolare, lamentando parecchie settimane di riposo.

 L’avventura mondiale per il Brasile si incamminava verso un sentiero diverso, le redini della squadra furono rilevate da Garrincha, un altro fuoriclasse di proporzioni mondiali. Tuttavia, il nome della Cecoslovacchia mi incuriosiva in maniera particolare. Finalista nel ’34, in questa edizione cilena i ceki erano arrivati in punta di piedi, ma superato il primo turno ai danni della Spagna di Di Stefano e  Puskas, si erano messi a fare le cose seriamente, piegando i cugini del Patto di Varsavia dell’Ungheria e della Jugoslavia, giungendo fino alla finale di Santiago del Cile del 17 giugno. Del resto ho avuto quasi sempre la vocazione di mettermi dalla parte dei punti deboli, anche nell’ambito calcistico. E quella della Cecoslovacchia che sfidava il grande Brasile nel titolo iridato era una immedesimazione perfetta. Più che un Davide contro Golia, una sfida tra due mentalità assolutamente diverse dell’arte pallonara. Da un lato l’invincibile Garrincha, eroe della gente povera e simbolo del Brasile, e dall’altro il colonnello Josef Masopoust, costretto dall’idea socialista ad appartenere alla nomenclatura del calcio del suo paese. Nato a Strimice, vicino alla remota Most, dopo gli esordi con il Teplice, nel 1952 fu arruolato dal Dukla Praga, la squadra vicina al regime, di cui ne difese i colori fino al 1968. Vinse ben 8 titoli e 3 coppe nazionali con la maglia di quella squadra, che purtroppo non faceva molto pubblico. O meglio era meno seguito sia dello Sparta che dello Slavia, ma anche meno del Bohemians, che non erano squadre imposte dalle istituzioni, ma bensì appartenenti alle istituzioni. Una volta quella stessa squadra arrivò anche nelle semifinali della Coppa dei Campioni nel 1967, ma anche questo non servì ad attirare le simpatie dei suoi detrattori.

 
Comunque, in quel pomeriggio di Santiago del Cile tutto o quasi sembrò sfuggire alle logiche della storia ed ai valori gerarchici del calcio mondiale. In quanto proprio Masopoust dopo appena un quarto d’ora portò in vantaggio la Cecoslovacchia, facendo temere il peggio al Brasile. Ma gli auriverdi fecero in modo che il sogno di quella matricola durasse troppo poco, con il quasi pareggio immediato di Amarildo. Poi ancora Garrincha fu il protagonista con i suoi assist, anche se Manè quella partita non avrebbe dovuto giocarla. Infatti, fu espulso nella semifinale contro il Cile, ma quindi successivamente riabilitato con grande diplomazia e diremmo violazione delle regole, grazie ai metodi già sapiente e corruttori di Joao Havelange. Si fece in modo che il guardalinee del match del Cile ammettesse la sua responsabilità nell’espulsione di Garrincha. Così il Brasile alla distanza vinse con i gol successivi di Zito e Vavà, portandosi a casa un’altra Coppa Rimet.

 Pensai molto in effetti in quei giorni d’estate a cosa sarebbe stata poi la Coppa Rimet con un albo d’oro in cui figurasse il nome della Cecoslovacchia al posto del Brasile in quell’edizione del 1962, ma non ebbi mai il piacere di saperlo. Così come ebbi il piacere di venire a conoscenza della riabilitazione di Garrincha soltanto dopo molti anni, in un articolo giornalistico neanche in lingua italiana. Così sarebbe cambiato nella mia infanzia calcistica di sapere di una Cecoslovacchia Campione del Mondo non lo so, ma quel gol di Masopoust accese in qualche modo tanta curiosità e tanta fantasia per il gioco del calcio.

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