di Vincenzo Paliotto (tratto da Gol Mondiali, Edizioni in
Contropiede)
Terminata
la stagione scolastica, trascorrevo gran parte delle mie vacanze estive a
divorare notizie di calcio sui rari, per la verità, quotidiani sportivi che mi
passavano tra le mani. Ricerche di risultati, notizie e curiosità di ogni
genere che mi dessero una maggiore conoscenza e profondità del fenomeno
calcistico. In famiglia se ne parlava tanto e nelle interminabili partite di
calcio in cortili e campetti di fortuna si tentava di emulare, con molta fatica
per la verità, le gesta di campioni più o meno noti. I tempi delle notizie
calcistiche via web erano lontanissimi, praticamente neanche immaginabili,
mentre il piccolo schermo dedicava un tempo limitato alla cultura calcistica e
alle vicende del pallone in generale. Trasmissioni spesso mandate in onda in
tardo orario e non sempre con una frequenza logica e prestabilita dal
palinsesto. Nel notiziario di Sportsera,
che molte volte peraltro durava pochissimo, si tentava di carpire quello che
accadeva intorno al mondo del pallone, con estrema attenzione al fattore
agonistico, anche perché il gossip dedicato ai calciatori era fortunatamente
pressoché inesistente. Più che altro la nostra generazione calcistica veniva
tenuta in compagnia dalla voce di Michele Plastino e dai suoi racconti anche
patetici, ma belli ed efficaci, sulle tv private. Tuttavia, qualcosa di
affascinante accadeva in prossimità della Coppa del Mondo, quando invece
venivano mandate in onda i racconti iridati delle precedenti edizioni iridate.
Era chiaro che prima del pomeriggio infuocato e fantastico del Sarrià di
Barcellona, in cui Paolo Rossi fece piangere il Brasile, così come lui stesso
ha di suo pugno scritto, i brasiliani fossero la scuola calcistica mitica ed
insuperabile per eccellenza. Nessuno, infatti, a livello mondiale aveva vinto
quanto i brasiliani. Tre titoli iridati conseguiti durante la storia fortunata
di quella che si chiamava la Coppa Rimet ed il tris in ambito mondiale sembrava
una chimera per tutti. Dei brasiliani oltretutto si temeva anche la supponenza.
Superato lo choc del Maracanà del 1950, gli auriverdi avevano finalmente
trovato la concentrazione e la maniera per imporsi all’attenzione mondiale per
la gioia di un popolo, che tra dittature e povertà varie, viveva il suo o quasi
unico momento di gloria intorno alle gesta della sua Selecao. I brasiliani riuscivano
a salvaguardare maggiormente il loro patrimonio calcistico, che era
indiscutibilmente quello di Pelè che neanche le loro risorse minerarie, assoggettate
completamente e senza neanche troppo mistero dalla politica e dalla prepotenza
degli americani.
Ad
ogni modo, ci fu un’edizione in cui il Brasile non riuscì a registrare il suo
incondizionato dominio. Successe non molto lontano dai confini brasiliani e più
precisamente nel vicino Cile, che aveva avuto l’onore di organizzare al Coppa
Rimet del 1962, grazie ai buoni uffici e al carisma di Carlos Dittborn, che aveva
intenzioni serie nel risollevare le sorti economiche del paese andino. Il
Brasile sbarcava in Cile con la statuetta della Coppa Rime tra le mani e quasi
nulla faceva presagire che gli stessi auriverdi se ne fossero tornati a casa
senza la stessa Coppa. La loro superiorità in ambito mondiale era riconosciuta
e temuta. Aymorè Moreira, il selezionatore dei
brasiliani, aveva dovuto in parte rivedere i suoi piani, anche se nella
sostanza cambiava poco. Orlando fu lasciato a casa, insieme a Bellini, in
quanto era andato a giocare fuori dai confini nazionali, e cioè al Boca
Juniors, così come qualche altro iridato. Poi per il resto ci si affidava
ovviamente alla grandezza di Pelè e alla sua irresistibilità. Ma il calcio,
anche quello, stava cambiando a ritmi vertiginosi, così come erano elevati i
ritmi delle prestazioni di ‘O rey,
che correva da una parte all’altra del mondo con la maglia del Santos o del
Brasile addosso, disputando ovunque amichevoli e tornei alla ricerca di lauti
ingaggi. Una delle tante volte che il Santos viaggiava alla volta dell’Europa per
una tourneè fu rispedito indietro. Pelè era infortunato e gli incassi delle
amichevoli non sarebbero stati gli stessi. La gira del Santos fu per questo
annullata. Battuto il Messico nella prima partita per 2-0, con un gol di Pelè,
tra le altre cose, le fortune della Perla Nera in quell’edizione del Mondiale
finirono lì. Infatti, nella successiva partita contro la Cecoslovacchia Pelè
riportò un infortunio muscolare, lamentando parecchie settimane di riposo.
L’avventura
mondiale per il Brasile si incamminava verso un sentiero diverso, le redini
della squadra furono rilevate da Garrincha, un altro fuoriclasse di proporzioni
mondiali. Tuttavia, il nome della Cecoslovacchia mi incuriosiva in maniera
particolare. Finalista nel ’34, in questa edizione cilena i ceki erano arrivati
in punta di piedi, ma superato il primo turno ai danni della Spagna di Di
Stefano e Puskas, si erano messi a fare
le cose seriamente, piegando i cugini del Patto di Varsavia dell’Ungheria e della
Jugoslavia, giungendo fino alla finale di Santiago del Cile del 17 giugno. Del
resto ho avuto quasi sempre la vocazione di mettermi dalla parte dei punti
deboli, anche nell’ambito calcistico. E quella della Cecoslovacchia che sfidava
il grande Brasile nel titolo iridato era una immedesimazione perfetta. Più che
un Davide contro Golia, una sfida tra due mentalità assolutamente diverse
dell’arte pallonara. Da un lato l’invincibile Garrincha, eroe della gente
povera e simbolo del Brasile, e dall’altro il colonnello Josef Masopoust,
costretto dall’idea socialista ad appartenere alla nomenclatura del calcio del
suo paese. Nato a Strimice, vicino alla remota Most, dopo gli esordi con il
Teplice, nel 1952 fu arruolato dal Dukla Praga, la squadra vicina al regime, di
cui ne difese i colori fino al 1968. Vinse ben 8 titoli e 3 coppe nazionali con
la maglia di quella squadra, che purtroppo non faceva molto pubblico. O meglio
era meno seguito sia dello Sparta che dello Slavia, ma anche meno del
Bohemians, che non erano squadre imposte dalle istituzioni, ma bensì
appartenenti alle istituzioni. Una volta quella stessa squadra arrivò anche
nelle semifinali della Coppa dei Campioni nel 1967, ma anche questo non servì
ad attirare le simpatie dei suoi detrattori.
Comunque, in quel pomeriggio di Santiago del
Cile tutto o quasi sembrò sfuggire alle logiche della storia ed ai valori
gerarchici del calcio mondiale. In quanto proprio Masopoust dopo appena un
quarto d’ora portò in vantaggio la Cecoslovacchia, facendo temere il peggio al
Brasile. Ma gli auriverdi fecero in modo che il sogno di quella matricola
durasse troppo poco, con il quasi pareggio immediato di Amarildo. Poi ancora
Garrincha fu il protagonista con i suoi assist, anche se Manè quella partita
non avrebbe dovuto giocarla. Infatti, fu espulso nella semifinale contro il
Cile, ma quindi successivamente riabilitato con grande diplomazia e diremmo
violazione delle regole, grazie ai metodi già sapiente e corruttori di Joao
Havelange. Si fece in modo che il guardalinee del match del Cile ammettesse la
sua responsabilità nell’espulsione di Garrincha. Così il Brasile alla distanza
vinse con i gol successivi di Zito e Vavà, portandosi a casa un’altra Coppa
Rimet.
Pensai molto in effetti in quei giorni
d’estate a cosa sarebbe stata poi la Coppa Rimet con un albo d’oro in cui
figurasse il nome della Cecoslovacchia al posto del Brasile in quell’edizione
del 1962, ma non ebbi mai il piacere di saperlo. Così come ebbi il piacere di
venire a conoscenza della riabilitazione di Garrincha soltanto dopo molti anni,
in un articolo giornalistico neanche in lingua italiana. Così sarebbe cambiato
nella mia infanzia calcistica di sapere di una Cecoslovacchia Campione del
Mondo non lo so, ma quel gol di Masopoust accese in qualche modo tanta
curiosità e tanta fantasia per il gioco del calcio.
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