di Alessandro Colombini
(www.minutosettantotto.altervista.org)
Ti guardi intorno e ne senti il bisogno, in Italia
più che mai. Perin, Buffon, Abbiati, Cannavaro, Aquilani, Di Canio e,
cronologicamente ultimo, Perez sono solo alcune delle facce del lato più
nostalgico del calcio nel belpaese. Nessuno si stupisce se personaggi ricchi e
straricchi cresciuti in un ambiente che fa del machismo, del maschilismo,
dell’agonismo e del razzismo alcuni dei suoi valori portanti quando diventano
uomini si fanno fotografare vicino a busti di Mussolini (Aquilani),
esultano con il braccio teso (Perez e Di Canio), festeggiano vittorie con
magliette riportanti slogan del ventennio (Buffon) o semplicemente si lasciano
ad andare a dichiarazioni nostalgiche (Perin, Cannavaro e Abbiati. Ovviamente
“la cosa sbagliata fu l’alleanza con Hitler”, ci mancherebbe). Il calcio però
per fortuna è sempre stato popolato anche da personalità dichiaratamente
antifasciste (più ieri che oggi, purtroppo), ed ignorarle oltre che
sbagliato sarebbe stupido. Dimenticare quelle gesta e tuffarsi del disfattismo
regala il calcio alle tifoserie che portano la celtica in curva o a chi fischia
i giocatori neri. Il calcio è anche e soprattutto aggregazione popolare e, di
conseguenza, antifascismo.
Minuto Settantotto vi porta a scoprire 3 storie di
persone che hanno saputo dire di no. Tre storie di Resistenza.
Sergio
Manzarena e Aitor Aguirre
Santander, 1975. Siamo nell’estremo nord della
Spagna franchista e nel “Campos de Sport de El Sardinero” il 28 settembre si
gioca Racing Santander, squadra locale, contro l’Elche. In campo ci sono i
consueti 22 uomini, ma le attenzioni di tutti sono su quell’ala destra e
quell’attaccante del Racing Santander con una banda nera al braccio. Si
chiamano Sergio Manzarena e Aitor Aguirre e il motivo di quella stringa
nera lo troviamo nei nomi di sette ragazzi: Jon, Txiqui, Angelo, Josè
Luis, Ramon e Josè. Erano le ultime vittime delle fucilazioni franchiste,
uccisi la sera del 27 settembre perché accusati di militanza nell’ETA e nel
FRAP. Lo vennero a sapere da una radio clandestina Sergio e Aitor, e non ci fu
neanche bisogno di pensarci: “Una reacción visceral”, racconterà in seguito
Manzarena, “un gesto por la democracia”. Subito dopo la partita un gruppo di
estrema destra minacciò i due calciatori e il presidente del Racing Santander
di morte, mentre la Federazione multava i due con 300.000 pesetas a testa con l’accusa
di aver minacciato l’ordine pubblico. Quelle di Jon, Txiqui, Angelo, Josè Luis,
Ramon e Josè saranno le ultime fucilazioni dei franchisti e la dittatura cadrà
poco dopo, regalando Sergio, Aitor e quelle due stringhe nere alla
storia non solo del Racing Santander, ma di tutta la Resistenza spagnola.
Michele
Moretti
Como, 1932. Ne ha già scartati tre
quell’oriundo, è una cazzo di bestia palla al piede. Si chiama Attila Sallustro
e a Napoli sta facendo goal a palate diventando una colonna portante della
Nazionale italiana. Ne ha già scartati tre, dicevamo, ed ora sta puntando
Michele. L’aveva capito che sarebbe rientrato sull’interno e l’oriundo ci trova
già il piede del terzino della Comese che lo contrasta. Gomitata nella bocca
dello stomaco, alla faccia dell’amichevole a fine allenamento della Nazionale
A. Piede a martello sulla coscia, la risposta di Michele. “Vuoi che sia il tuo
ultimo allenamento in Nazionale, Moretti?”, lo rimprovera a fine allenamento
Pozzo, “Sallustro domenica scende in campo contro la Svizzera!”. “Sono qui per
giocare a calcio, non per farmi picchiare. Le mie spalle valgono come quelle
degli altri, mister”. Questo è Michele Moretti. O meglio, questo è i Pietro
Gatti, comandante partigiano della 52° Brigata Garibaldi. Terzino della Comese
dal ’27 al ’35, fu uno dei protagonisti della mitica annata ’29-’30, dove la
Comese termina la stagione in Prima Divisione imbattuta (sfiorando l’anno dopo
la promozione in Serie A). Iscritto fin da subito all’illegale Partito
Comunista capisce ben presto che in quegli anni c’erano cose più importanti del
calcio: la libertà, una su tutte. Nel 1943 sfugge alla deportazione e si unisce
alla lotta partigiana, diventando il comandante della 52° Garibaldi e scrivendo
uno dei capitoli più importanti della storia italiana. Il 27 aprile 1945 a
Blevio sono in cinque: il Colonnello Valerio, Guido Conti, Benito Mussolini,
Claretta Petacci e Michele, per l’occasione Comandante Pietro Gatti. Dopo la
cattura dell’ormai ex Duce e dell’amante era prevista la fucilazione sul luogo.
Incaricato dell’esecuzione era il Colonnello Valerio, ma al momento della
raffica mortale il Thompson si inceppa. La storia vuole adesso due versioni: la
prima è che Moretti abbia passato il suo Mas 7,65 al compagno per compiere
l’esecuzione, un’altra è quella che fu lo stesso terzino della Comese ad
uccidere Mussolini e la Petacci. Attila Sallustro non venne convocato per
il Mondiale del ’34 e con il passaggio alla Salernitana iniziò un inarrestabile
declino, Michele Moretti tornò a fare l’operaio e i partigiani liberarono
l’Italia.
Oleksiy Gai
Odessa, 2014. Non siamo in una città come le altre.
Siamo una città segnata a vita dal sangue di vittime innocenti. Facciamo il
punto della situazione: il 2 maggio 2014 a Odessa, dopo violenti scontri tra filo-russi
e ultras neonazisti sostenitori del governo di Kiev, un gruppo di manifestanti
filo-russi si è rifugiato nel Palazzo dei Sindacati. Una
gruppo di estremisti di destra, sostenitori del governo
auto-proclamatosi, ha iniziato un fitto lancio di molotov sul palazzo comportando
uno spaventoso incendio. Le vittime sono state trentotto, tra cui anche diverse
donne, la maggior parte bruciate vive, soffocate dal fumo o morte in seguito ad
un disperato lancio dal palazzo in fiamme, ma su svariate vittime sono stati
rinvenuti spari o evidenti segni di stupro. Non è una città come le altre
Odessa, non può esserlo. Durante Chornomorets Odesa FC-Karpaty
Lviv sono in 21 a piegare la testa. Oleksiy dice di no. Le squadre entrano
in campo con una maglietta emblematica: “Gloria all’esercito ucraino” recita
una scritta in cirillico. La portano tutti tranne quel centrocampista con vizio
del goal ed un buon passato tra le fila dello Shakhtar Donetsk. “Non ho capito
il senso dell’azione”, spiega alle telecamere, “è una partita di calcio. Cosa
c’entra l’esercito ucraino?”. Oleksiy Gai è quel’1 su 21 che ci ricorda ogni
santa volta cosa sia la dignità.
L’articolo è uscito in anteprima
per la pagina
otto dell’edizione del 16 maggio del mensile Senza Soste.
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