di
Antonio Vespasiano
Correva
l’anno 1948 e in Colombia la Liga Mayor de Fútbol, meglio conosciuta come Dimayor,
s’apprestava a muovere i primi passi, diventando il primo vero esperimento di
show-business ante litteram, volto ad esaltare al massimo la spettacolarità del
gesto sportivo, per la gioia di folle (paganti ed) entusiaste a discapito di
quei valori, primo fra tutti il dilettantismo, che erano ancora alla base del
calcio a diverse latitudini. Quella fortunata e discussa stagione di
rinnovamento e d’avanguardia, nota come l’“Eldorado Fútbol”, ebbe modo di farsi carico di
numerose innovazioni, basti pensare all’introduzione del numero sulla maglia
dei giocatori, all’impiego di arbitri professionisti, all’autorizzazione a due
sostituzioni per incontro e all’esclusione di limiti al tesseramento dei
calciatori stranieri, senza contare la folle corsa agli ingaggi milionari che
aveva attirato campioni da tutto il mondo. Tutte misure, queste, finalizzate ad
un’evoluzione qualitativa del gioco ma soprattutto dello spettacolo.
Nonostante
la rottura con la Federcalcio colombiana e successivamente con la Fifa (che ne
aveva addirittura dichiarato l’illegittimità), la Dimayor, il cui simbolo era
il “Ballet Azul” dei Millonarios di Bogotà, squadra che annovera giocatori del
calibro di Pedernera, Di Stefano e Néstor Rossi, è il primo vero segnale di vita
dato dal calcio colombiano, che fino ad allora aveva annaspato nella
mediocrità. Peccato che la Lega “fuorilegge” ebbe vita breve. Nel ’57, infatti,
chiuse i battenti, senza di fatto aver creato la tanto attesa spinta al
movimento calcistico nazionale, in perenne ritardo rispetto a quanto avveniva
invece nel resto del Sudamerica. Emblematiche a tal riguardo erano le
prestazioni della Nazionale, la quale alternava lunghi periodi di inattività a
imbarazzanti comparsate internazionali. A mancare non era certo l’entusiasmo
della base, ma una cronica assenza d’unità d’intenti su come organizzare e
strutturare il sistema calcio, non solo tra Federazioni locali ma addirittura
al vertice della piramide. Tant’è che enorme fu la sorpresa quando nel ’62 la
Colombia strappò il pass per i Campionati del Mondo.
Furono gli
anni ’70 a segnare un nuovo inizio per il calcio colombiano con la nascita
dell’attuale Federación
Colombiana de Fútbol e una sostanziale riforma dei campionati. Nel ’75 i “Cafeteros”
raggiunsero per la prima volta la finale della Coppa America, persa, però, allo
spareggio col Perù. Finalmente anche il calcio colombiano aveva acquistato
credibilità, tanto più che sul finire degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 s’assistette
al riscatto di tutto il movimento, non solo a livello di club, dove più volte i
colombiani arrivarono all’atto conclusivo della Coppa Libertadores, conquistata
nel 1989 dall’Atlético Nacional de Medellín, ma anche a livello internazionale,
grazie ai prestigiosi risultati ottenuti dalla Nazionale guidata da Francisco
Maturana, capace di fondere disciplina tattica, capacità tecniche e furore
agonistico. Era quello il periodo della “Generación Dorada” della Colombia, che
grazie a tre Mondiali consecutivi (’90, ’94 e ’98) e a personaggi come Carlos
Valderrama e Renè Higuita, amatissimi dai tifosi di tutto il mondo, aveva
trovato modo di registrare consensi e notorietà sul proscenio internazionale.
Con
la vittoria sul Messico nella Coppa America del 2001 (torneo che vide, però,
diverse defezioni illustri dovute a ragioni di sicurezza) il calcio colombiano,
mai del tutto affrancato da oscure ed anarchiche trame nazional-popolari (basti
ricordare le ingerenze dei cartelli del narcotraffico nelle vicende di campo o
il drammatico assassinio di Andrés
Escobar, reo d’aver provocato l’autogol che aveva sancito l’eliminazione dai
Mondiali del ’94), ha toccato il suo apice, salvo poi, come accade spesso in
queste circostanze, ripiombare di nuovo in un grigio anonimato.
Oggi
come oggi, però, la Colombia - risultati alla mano, una delle compagini più
temute in Sudamerica - sta vivendo un secondo “Rinascimento calcistico”, anche
grazie ad una fortunata generazione di talenti che ha in Radamel Falcao il “Líder máximo”, dietro al quale
numeroso è il manipolo di giovani (molti dei quali, come Muriel, Ibarbo,
Quintero o Cuadrado, svezzati proprio dai club italiani) che sembrano poter
riportare i “Cafeteros” ai fasti degli anni ’90.
LA
FORMAZIONE DI SEMPRE
CORDOBA CUORE DI COLOMBIA
Nella galleria dei migliori portieri colombiani di sempre il posto
d’onore spetta a EFRAÍN SÁNCHEZ, leggendario portiere, passato alle cronache
col curioso soprannome di “Caimano di Boedo” ma anche “Tenaglia colombiana”.
Indimenticato estremo baluardo del più forte Deportivo Independiente Medellín di tutti
i tempi. Ebbe cristallizzato il suo momento di gloria quando nella Coppa
America del ’57 la Colombia riuscì a battere per la prima volta nella sua
storia l’Uruguay. La partita terminò 1-0 con rete di Arango, ma per i tifosi, che
lo portarono in trionfo acclamandolo come un eroe, decisive furono le sue
parate. Titolare nel primo Mondiale disputato dai “Cafeteros”, quello cileno
del ’62 dove il clamoroso 4-4 con l’Unione Sovietica di Yashin venne
festeggiato come una vittoria. Un infortunio al ginocchio ne chiuse anzitempo
la carriera. Come vice, nonostante autorevoli candidati come Óscar Córdoba o Pedro Zape, impossibile non pensare a
RENÉ HIGUITA. Impostosi all’attenzione nella Coppa Libertadores del 1989, vinta
con la maglia del Nacional de Medellín
dopo un infinita serie di rigori, per lo stravagante modo in cui interpretava
il ruolo, decisamente al di fuori dei canoni tradizionali. Higuita infatti
aveva una debordante personalità, un mix di spettacolarità e pazzia. In campo
era uno showman, tra i pali sapeva destreggiarsi alla grande, bravo coi
penalty, sapeva pararli ma anche segnarli, leggendario poi è il suo “morso
dello scorpione”, un tipo di intervento sui tiri da lontano che faceva tremare
le coronarie dei tifosi, senza contare poi le sue avventurose uscite palla al
piede dall’area di rigore saltando gli avversari. Nonostante l’aura mistica
però indelebile è rimasta sulla sua carriera la macchia di quel goffo tentativo
di dribblare Milla negli ottavi di finale di Italia ’90, che costò
l’eliminazione alla Colombia. Poteva essere il migliore di sempre ma è rimasto
vittima del suo essere personaggio ad ogni costo, vezzo che comunque gli ha
garantito l’immortalità.
Terzino destro LUIS FERNANDO HERRERA. “El Chonto”, come lo chiamavano
i tifosi, è uno dei migliori laterali difensivi della storia del calcio
colombiano. Ha fatto parte della generazione d’oro che con Maturana in panchina
seppe ben figurare in due consecutivi Campionati del Mondo. Colonna del Nacional de Medellín con il quale vinse due Campionati, la Libertadores
del 1989 e la Coppa Interamericana del 1990. Nonostante peccasse in altezza
faceva dell’agonismo e della predisposizione al sacrificio le sue armi
migliori. Bravo con entrambi i piedi, il suo terreno di caccia era la fascia
destra sulla quale imponeva il suo gioco in entrambe le metà campo. A sinistra invece la classe,
l’eleganza e l’audacia di DIEGO OSORIO, laterale con licenza e vocazione
offensiva. Ottima tecnica, bravo nel dribbling che abbinava alla capacità di
saper ricoprire diversi ruoli. Nonostante abbia giocato solo 17 partite con i
“Cafeteros” è considerato il miglior laterale offensivo nella storia del calcio
colombiano. Purtroppo non è mai riuscito appieno ad esprimere il suo talento,
perseguitato com’era da una serie infinita di incidenti a caviglie e ginocchia,
troppo deboli per assecondare i ritmi di gioco. Amatissimo dai tifosi per la
spettacolarità delle sue giocate, fu un dramma il suo ritiro prematuro dai
campi di gioco. Al centro due colossi del calcio colombiano. Partiamo con IVÁN CÓRDOBA, il miglior difensore colombiano di sempre, fascio di nervi
e muscoli, concentrato di forza, potenza e velocità. Marcatore sempre attento e
spietato ma corretto e leale. Arrivò all’Inter da carneade, ha lasciato la
Beneamata con oltre 400 presenze e un palmares degno dei più grandi: cinque
Scudetti, quattro Coppe Italia, una Champions League e un Mondiale per club.
Tecnicamente un po’ ruvido, ma indiscutibile per l’impegno e la dedizione alla
causa. Sbalorditivo poi il suo stacco da terra e la bravura nel gioco aereo,
nonostante un fisico non certo da corazziere. In Nazionale ha raccolto 71
presenze e 5 gol, il più importante dei quali nella finale della Coppa America
del 2001, vinta proprio grazie ad un suo colpo di testa. L’altro centrale è lo statuario
MARIO YEPES che con Cordoba formava una coppia di tutto rispetto (erano loro
due, infatti, a guidare la retroguardia colombiana nella Coppa America del
2001). Mancino, bravo nell’anticipo e nel gioco aereo. Dopo una Libertadores
persa ai rigori e due Campionati vinti col River Plate sbarca in Francia dove
diventa una delle colonne del Psg poco prima che i petrodollari degli sceicchi
facessero le fortune del club parigino. Pur arrivando in Italia in punta di
piedi ha saputo imporsi partendo dal basso grazie alla sua capacità di
infondere sicurezza al reparto e il suo affidabile e perentorio carisma. Nonostante
i suoi trentasette anni è ancora sul campo a dar battaglia con la maglia del
Milan.
Terzino destro merita d’essere ricordato ANDRÉS
ESCOBAR, difensore del Nacional de Medellín di cui era un autentico idolo. Nato
proprio a Medellín e per questo simbolo della nuova politica autarchica
intrapresa dal club, che nel 1989 aveva portato alla vittoria della Coppa
Libertadores e a sfiorare quella dell’Intercontinentale. La sua
correttezza in campo e la sua sportività gli fanno ottenere il soprannome di
“Caballero del Futbol”. Stagione dopo stagione s’impose come uno dei migliori
difensori del calcio colombiano, terzino o centrale forte fisicamente, efficace
nei contrasti e nella copertura della zona. Dopo l’esperienza colta in
Nazionale nel Mondiale italiano del ’90, ad Usa ’94 è proprio lui il perno
della retroguardia colombiana, eppure un suo sfortunato autogol ne sentenziò la
condanna a morte. Al ritorno in Colombia, infatti, uno squilibrato lo freddò
con dodici colpi di pistola proprio a causa di quell’autorete. Migliaia furono
le persone che si riversarono per le strade il giorno del suo funerale. Al
centro FRANCISCO ZULUAGA, considerato
uno dei migliori difensori centrali della storia del calcio colombiano, fu una
delle colonne del mitico “Ballet Azul” dei Millonarios di Bogotà, uno dei team più famosi negli
anni ’50. Buona tecnica, gran velocità. Freddezza a carisma da vendere,
sviluppò la sua carriera in parallelo con i progressi del calcio colombiano e
il rigore che, da capitano, segnò contro l’Uruguay, nella prima partita
assoluta giocata dalla Colombia in un Mondiale, non poteva che essere il
miglior riconoscimento a cui ambire alla soglia dei trentatré anni. Lo chiamavano “el Patrón”, basterebbe
questo a descrivere la tempra di JORGE BERMÚDEZ. Leader
difensivo con personalità e intelligenza tattica, sicuro e attento nel gioco
aereo, arcigno nei contrasti, ottimo senso della posizione. Con la maglia del
Boca Juniors si è imposto come uno dei più forti difensori sudamericani tanto
da venir incluso nella top 11 all time della Coppa Libertadores. In bacheca
oltre cinque Campionati nazionali (tre col Boca), due Libertadores e una Coppa
Intercontinentale, senza contare il terzo posto nella Coppa America del ’95. Chiude
il reparto WILSON PÉREZ, il miglior terzino sinistro che la Colombia abbia
avuto negli anni ’90. Era in campo anche lui nello storico e clamoroso 5-0 che
la Colombia inflisse all’Argentina nelle qualificazioni al Mondiale americano.
Con i “Diavoli Rossi” dell’América de Cali vinse quattro Campionati, mentre in
Nazionale racimolò 47 presenze incluse le tre dello sfortunato Mondiale
americano conquistato con brillanti performance nel girone di qualificazione.
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