di Francesco Pedemonte (www.pagina2cento.it)
Dopo aver effettuato il sopralluogo all’Estadio
Nacional di Santiago nell’ottobre ’73, i commissari Fifa dichiararono di non aver trovato nulla di
particolare. Conclusero la loro ispezione con una conferenza stampa, a cui
presenziò anche il comandante Patricio Carvajal (investito della presidenza del
Ministero della Difesa): «tranquillità totale – dissero – non spaventatevi della campagna dei giornalisti in tutto
il mondo contro il Cile. Anche al Brasile è successo la stessa cosa, ma non c’è
nulla da preoccuparsi».Purtroppo, però, le mura dello stadio della capitale
andina, che fino ad allora avevano visto i trionfi del Colo Colo, dell’Universidad de Chile e della Roja (ai mondiali del ’62), tra l’11 settembre e il
7 novembre 1973 si erano trasformate in un campo di concentramento in cui
vennero rinchiusi quasi 15.000 cileni: gli uomini sul campo da gioco e negli
spogliatoi, le donne nelle palestre e negli uffici. I commissari Albilio D’Almeida, brasiliano, e Helmut Kaeser, svizzero, non sentirono l’odore
dell’urina e della merda, non videro il sangue delle torture. Tutto era stato
già ripulito. Eppure, ironia della sorte, tutto era ancora davanti ai loro
occhi: il giornalista americano Charles Horman, ad esempio, fu
fucilato nello stadio e poi murato nelle sue viscere. Analoga sorte toccò al
connazionale Frank Teruggi: entrambi “colpevoli”
di aver informato il mondo sulle connivenze tra gli Stati Uniti e il golpe
fascista di Pinochet. Victor Jara, invece, cantautore
cileno, fu imprigionato proprio all’Estadio Nacional: arrestato e
torturato, i militari gli spezzarono entrambe le mani prima di ucciderlo.
Violenze che trovarono legittimazione anche grazie all’atteggiamento passivo
del governo del calcio: «la Fifa – dice Vincenzo Paliotto,
autore di Estadio Nacional, il gol più triste
(ed. Urbone)
– fu complice di molti governi dittatoriali in America Latina. Nel caso
del Cile, poi, vale la pena ricordare che, a livello internazionale, era
risaputo l’aiuto statunitense alla giunta. E Joao Havelange (che nel ’74
sarebbe diventato presidente della Fifa) godeva dell’appoggio proprio di
Kissinger, il segretario di stato americano». Dal 1970 il Cile era guidato da Salvator Allende che, dopo aver vinto democraticamente
le elezioni, costituì un governo di natura socialista sotto la spinta del
partito Unitad Popular, coalizione di
centrosinistra che comprendeva democristiani della sinistra cattolica, fino ai
militanti del Partito Comunista Cileno. Il governo adottò velocemente alcuni
provvedimenti come la nazionalizzazione delle miniere di rame e la riforma
agraria, azioni che incontrarono il consenso popolare, meno quello di
multinazionali come la Kennecott United Company e l’Anaconda. Tuttavia, nonostante le interferenze
statunitensi nella politica cilena, il consenso di Allende non diminuì e
già nel luglio del 1973 i suoi oppositori erano pronti per un golpe militare.
Che puntualmente avvenne l’11 settembre.
Per contro il 1973 fu un anno ricco di avvenimenti per il calcio cileno: il Colo Colo, trascinato dai gol di Caszely e Valdez, raggiunse la finale di Coppa Libertadores, mentre la nazionale avrebbe spareggiato contro l’Urss per partecipare ai mondiali dell’anno successivo: 26 settembre l’andata a Mosca, l’11 novembre il ritorno a Santiago. E proprio nelle stesse ore in cui la Roja volava verso l’Unione Sovietica, Pinochet con l’ausilio dei caccia americani bombardava La Moneda: «il Cile riuscì a pareggiare zero a zero – precisa Paliotto – anche grazie alle parate di Vallejos. Tutto si sarebbe giocato a Santiago. Ma la Russia, che con Allende intratteneva ottimi rapporti, si rifiutò di legittimare il governo golpista. La giunta, d’altro canto, come massimo della provocazione decise di far giocare il ritorno all’Estadio Nacional, proprio là dove migliaia di cileni erano stati detenuti, torturati e uccisi. La federazione sovietica – continua – decise pertanto di non giocare, di rinunciare ai mondiali e di non volare in Cile». Una decisione che suscitò scalpore, ma solo per poche ore: «Pinochet stabilì infatti che la partita si sarebbe giocata lo stesso. Anche senza avversari: una pantomima clamorosa solo per dimostrare la potenza del regime». La partita fantasma copriva di ridicolo i calciatori cileni, che avrebbero dovuto partecipare tutti allo sviluppo dell’azione con un tocco di palla. E il compito di depositare la pallone in rete spettava al capitano di quel gruppo: «far segnare Francisco Valdez – precisa Paliotto – non fu casuale. Lui era la bandiera di quella squadra e anche del Colo Colo, ma soprattutto era figlio di operai e militante di sinistra da sempre». Durante lo svolgimento dell’azione, ci fu chi come Carlos Caszely, soprannominato El rey del metro cuadrado, aveva intenzione di scagliare la palla in tribuna come gesto di protesta, ma una volta in campo comprensibilmente desistette dal proposito: «a 23 anni fu uno dei trascinatori del Colo Colo verso la finale di Libertadores – ricorda l’autore di Estadio Nacional – si era apertamente schierato con Allende e Unitad Popular, frequentando parlamentari e segretari del partito. Si rifiutò sempre di stringere la mano a Pinochet e per le sue idee fu costretto ad emigrare in Spagna: prima al Levante e poi all’Espanyol. Assieme alla madre Olga Garrido, a sua volta sequestrata e torturata, fu protagonista della campagna per il NO al referendum che nel 1988 mise fine alla dittatura». La dittatura di Pinochet cambiò la vita di migliaia di cileni, ma influenzò anche il calcio: «il regime agevolò la crescita del livello calcistico soprattutto nelle regioni periferiche. Il caso più evidente – sottolinea Paliotto – fu quello del Cobreloa di La Calama, nella zona desertica di Atacama, capace di vincere in brevissimo tempo il campionato e di giocare due finali (perse) in Libertadores. La giunta agevolò anche il Colo Colo, impegnandosi in particolare a rifinire l’Estadio Monumental nel quartiere di Macul, mentre attuò una dura repressione nei confronti dell’Universidad de Chile: Pinochet decise infatti di scollare la gestione tecnica del club dai vertici dell’ateneo, ovvero l’ambiente in cui le idee marxiste avevano trovato maggiore diffusione. E non è un caso – prosegue – che la U abbia vissuto sotto la dittatura il suo periodo sportivo peggiore: 25 anni senza vincere un titolo e addirittura retrocessione in Segunda Division. Eppure – conclude – la rivalità del Superclasico cileno non si ripropose in campo politico. Nel 1986, infatti, durante un derby proprio all’Estadio Nacional, oltre 76 mila persone, contemporaneamente e da entrambe le curve, si unirono in un unico coro: Ya va a caer». Cadrà. Sarebbe successo 2 anni dopo. Troppo tardi.
Per contro il 1973 fu un anno ricco di avvenimenti per il calcio cileno: il Colo Colo, trascinato dai gol di Caszely e Valdez, raggiunse la finale di Coppa Libertadores, mentre la nazionale avrebbe spareggiato contro l’Urss per partecipare ai mondiali dell’anno successivo: 26 settembre l’andata a Mosca, l’11 novembre il ritorno a Santiago. E proprio nelle stesse ore in cui la Roja volava verso l’Unione Sovietica, Pinochet con l’ausilio dei caccia americani bombardava La Moneda: «il Cile riuscì a pareggiare zero a zero – precisa Paliotto – anche grazie alle parate di Vallejos. Tutto si sarebbe giocato a Santiago. Ma la Russia, che con Allende intratteneva ottimi rapporti, si rifiutò di legittimare il governo golpista. La giunta, d’altro canto, come massimo della provocazione decise di far giocare il ritorno all’Estadio Nacional, proprio là dove migliaia di cileni erano stati detenuti, torturati e uccisi. La federazione sovietica – continua – decise pertanto di non giocare, di rinunciare ai mondiali e di non volare in Cile». Una decisione che suscitò scalpore, ma solo per poche ore: «Pinochet stabilì infatti che la partita si sarebbe giocata lo stesso. Anche senza avversari: una pantomima clamorosa solo per dimostrare la potenza del regime». La partita fantasma copriva di ridicolo i calciatori cileni, che avrebbero dovuto partecipare tutti allo sviluppo dell’azione con un tocco di palla. E il compito di depositare la pallone in rete spettava al capitano di quel gruppo: «far segnare Francisco Valdez – precisa Paliotto – non fu casuale. Lui era la bandiera di quella squadra e anche del Colo Colo, ma soprattutto era figlio di operai e militante di sinistra da sempre». Durante lo svolgimento dell’azione, ci fu chi come Carlos Caszely, soprannominato El rey del metro cuadrado, aveva intenzione di scagliare la palla in tribuna come gesto di protesta, ma una volta in campo comprensibilmente desistette dal proposito: «a 23 anni fu uno dei trascinatori del Colo Colo verso la finale di Libertadores – ricorda l’autore di Estadio Nacional – si era apertamente schierato con Allende e Unitad Popular, frequentando parlamentari e segretari del partito. Si rifiutò sempre di stringere la mano a Pinochet e per le sue idee fu costretto ad emigrare in Spagna: prima al Levante e poi all’Espanyol. Assieme alla madre Olga Garrido, a sua volta sequestrata e torturata, fu protagonista della campagna per il NO al referendum che nel 1988 mise fine alla dittatura». La dittatura di Pinochet cambiò la vita di migliaia di cileni, ma influenzò anche il calcio: «il regime agevolò la crescita del livello calcistico soprattutto nelle regioni periferiche. Il caso più evidente – sottolinea Paliotto – fu quello del Cobreloa di La Calama, nella zona desertica di Atacama, capace di vincere in brevissimo tempo il campionato e di giocare due finali (perse) in Libertadores. La giunta agevolò anche il Colo Colo, impegnandosi in particolare a rifinire l’Estadio Monumental nel quartiere di Macul, mentre attuò una dura repressione nei confronti dell’Universidad de Chile: Pinochet decise infatti di scollare la gestione tecnica del club dai vertici dell’ateneo, ovvero l’ambiente in cui le idee marxiste avevano trovato maggiore diffusione. E non è un caso – prosegue – che la U abbia vissuto sotto la dittatura il suo periodo sportivo peggiore: 25 anni senza vincere un titolo e addirittura retrocessione in Segunda Division. Eppure – conclude – la rivalità del Superclasico cileno non si ripropose in campo politico. Nel 1986, infatti, durante un derby proprio all’Estadio Nacional, oltre 76 mila persone, contemporaneamente e da entrambe le curve, si unirono in un unico coro: Ya va a caer». Cadrà. Sarebbe successo 2 anni dopo. Troppo tardi.
http://www.pagina2cento.it/2015/10/01/il-gol-piu-triste/
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