di Vincenzo Lacerenza
Quando John Hanning
Speke
e James
Augustus Grant scoprirono le sorgenti del Nilo,
in Africa Orientale imperavano i regni tradizionali. Uno dei più grandi ed
estesi era quello di Buganda. Dal Lago Kyonga
al Lago Vittoria, dal Nilo Vittoria al Lago
Alberto.
Governato dai kabaka, nome luganda dei sovrani locali, non fu mai
conquistato da coloni inglesi. Questione di orgoglio, di identità, di
tradizione. Fu infatti il kabaka Mwanga ad
accettare lo status di protettorato britannico nel 1894. Importante per le piantagioni
di cotone e caffè e sede di un nevralgico snodo ferroviario che collegava Mombasa
a Kampala,
il paese perse la condizione di protettorato britannico con l’indipendenza
arrivata nel 1962. Precisamente il 9 Ottobre 1962, data in cui il re Mutesa II
venne affiancato alla guida del paese dal primo ministro Milton Obote.
Una convivenza forzata, mal digerita
sopratutto dal katikiro, letteralmente il consigliere, Obote.
Da consumarsi nella nuova capitale. Non più Entebbe, ma bensì
Kampala.
La città sorta attorno al forte eretto nel 1890 da tale Frederick
Lugard e adagiata sulle tondeggianti colline Nakasero.
Non molto distante dalle sterminate rive del Lago Vittoria e
dalle vorticose cascate Ssebziwa. Dopo quattro anni di
finta sopportazione, nel 1966 Obote da la stura agli istinti
antimonarchici e con l’aiuto di apparati deviati dell’esercito assalta il
palazzo presidenziale. Inevitabile l’esilio di Mutesa II. Col
sovrano fuori gioco e dopo l’immancabile modifica costituzionale dell’anno
successivo, Obote inizia a governare l’Uganda,
nome swahili con la quale era conosciuta la parte meridionale del regno di Buganda.
Ma chi di spada ferisce di spada perisce. Il contrappasso di Obote
si materializza nel 1971, circa dieci anni dopo l’indipendenza del paese. La
notte del 25 Gennaio 1971 è una notte dai lunghi coltelli. Colpi
di mortaio squarciano le tenebre. I golpisti capeggiati da Idi Amin Dada
entrano a Kampala. Stringono d’assedio le caserme, si impossessano
dei nuclei del potere fino a far cadere il governo di Obote.
Inizia così la dittatura di Amin Dada,
ex luogotenente proprio del deposto primo ministro. Inizialmente salutata con
favore dalle potenze Occidentali, specie per la deriva comunista assunta da
quella precedente , sarà una delle più sanguinarie di tutta la storia politica
del Continente Nero. Probabilmente una delle tante pagine rimaste incollate nel
grande libro della storia. Appena insediatosi al potere Amin Dada
inizia le repressioni e le persecuzioni nei confronti delle minoranze etniche.
Ad entrare nel mirino dell’istrionico dittatore sono sopratutto le popolazioni
nilotiche settentrionali. Amin teme infatti la superiorità numerica
nell’esercito degli acholi e dei langi. Ne ordina l’eliminazione cosi come
chiede l’allontanamento dal paese degli asiatici, a sua detta troppo ingerenti
nelle questioni economiche.
Lo chiamano Big Daddy,
per via della sua statuaria imponenza fisica. Evidentemente però un solo
soprannome non basta per appagare il suo ego smisurato. Conia allora lui stesso
l’appellativo con cui ama essere identificato e adorato: “Sua Eccellenza
il presidente a vita, feldmaresciallo Al Hadji dottor Idi Amin, VC, DSO, MC,
signore di tutte le bestie della Terra e dei pesci del mare, e conquistatore
dell’impero britannico in Africa in generale e in Uganda in particolare“.
Tra una strizzatina al colonnello Gheddafi ed un’altra agli
indipendentisti scozzesi, Big Daddy deve guardarsi le spalle dai
sostenitori lealisti ad Otobe e da Otobe
stesso, ospitato nel frattempo dalla Tanzania. Il leader spodestato sta
provando a riorganizzare le milizie per tentare il controgolpe. D’altronde la
vendetta è un piatto da servire freddo. Per farlo conta sul supporto, nemmeno
troppo tacito, della Tanzania. L’appoggio del presidente
tanzaniano Julius Nyerere contribuisce ad inasprire
le tensioni ed ad innalzare una cortina di ferro tra i due paesi. Venti di
guerra iniziano a spirare in Africa Orientale. Il conflitto appare inevitabile.
Sarà inevitabile.
Nel 1978 l’Uganda
è un paese sull’orlo di un conflitto fratricida con la Tanzania,
funestata dal potere bulimico del suo dittatore e attraversata da tensioni e
contraddizioni di ogni genere. Nel 1978 è in programma però anche la Coppa
d’Africa. Dopo due eliminazioni consecutive al primo turno, le Gru,
soprannome con quale sono conosciuti i calciatori ugandesi, vogliono provare a
rasserenare il clima attraverso ottime prestazioni in campo. Una panacea
calcistica in cui affogare le ansie per un futuro poco futuribile.
La selezione di Peter Okee si
qualifica superando l’Etiopia nel secondo turno con un 2-1 tra le mura amiche
dopo un pareggio a reti inviolate ad Addis Abeba. La manifestazione
ospitata dal Ghana prende il via il 5 Marzo 1978 con la vittoria
della selezione di casa sullo Zambia. Una vittoria di misura per 2-1.
Sofferta oltre le aspettative, ma importante per lanciare un messaggio alla
concorrenza. Dopo i due allori consecutivi del 1963 e del 1965 e le due piazze
d’onore ottenute nel 1968 e nel 1970, le Black Stars hanno disertato
l’appuntamento con la massima competizione calcistica africana per ben tre
edizioni consecutive. Una ferita troppo grande per una delle scuole calcistiche
egemoni dell’universo africano. Da rimarginare alzando il trofeo sotto le
stelle nere di Accra.
Tra le rivali più accreditate ci sono il
Marocco, campione uscente e la sempreverde Nigeria. La Costa
d’Avorio e il Mali poi nemmeno vi partecipano. Entrambe le
formazioni vengono squalificate per irregolarità commesse nei precedenti turni
di qualificazione. Una sliding door in cui si infila di prepotenza la selezione
dell’Alto Volta, l’odierna Burkina Faso. Il destino riserva all’Uganda
il gruppo B. La compagnia è gradevole, ma da non sottovalutare. Sistemate nello
stesso girone ci sono la Tunisia, il Congo-Brazzaville, ma
sopratutto il Marocco detentore del trofeo.
Le Gru iniziano il loro cammino a
Kumasi. Nella Garden City, gli uomini di Okee si impongono
con un perentorio 3-1 sul Congo-Brazzaville. Segnano Omondi, Semwanga
e Kisitu. Ma è il primo goal a suscitare maggior interesse. Siglato al
primo minuto, da un numero uno assoluto. Philip Omondi, un numero primo.
Divisibile soltanto per il riflesso di se stesso, ma senza il vezzo della
solitudine. Un solo uomo, ma non un uomo solo e da solo. Un uomo sospinto e
accompagnato da una squadra e da un paese intero.
Dotato di un innato fiuto del goal, il
suo ex allenatore David Otti lo ricorda così: “Nessun ugandese potra
mai eguagliarlo, poteva cambiare la partita in una frazione di secondo. Non ho
mai visto un giocatore come lui“. Otti non era un semplice allenatore. Era
un padre putativo, un mentore. Quando nel 1973 Robert Kiberu sbarra le
porte della nazionale bugandese ad “Omo” lui è l’unico a non nutrire dubbi sul
talento del ragazzo. “Aveva un talento unico, me ne sono accorto quando mi
allenavo con lui in campo”.
Strappato al
pugilato, via indicatagli dal suo amico Shadtack Odhiambo, ex pugile
professionita, il giovane Omondi si avvicina al calcio in maniera del
tutto casuale. Nel 1969 si ritrova a palleggiare per diletto di fronte
all’ostello Lugogo. Lo stesso dove la nazionale ugandese alloggia in vista
della CECAFA Cup in programma quell’anno. L’abilità da giocoliere e la
rara sensibilità del piede attirano l’attenzione del tecnico Burkhard Pepe
e del team manager Andrew Wassaka fino a spingerli ad assoldare
l’imberbe Philip come raccattapalle. E’ la scintilla: l’anno successivo entra
nel settore giovanile del Naguru. Poi passa al Fiat Fc dove
rimane fino al 1973, quando il suo talento cristallino non sfugge all’occhio
temprato di Bidandi Ssali, allenatore del Kampala City Council FC,
una delle più blasonate compagini del paese.
Arrivato nella capitale a sedici anni
insieme al compagno Tom Lwanga vi rimarrà fino al 1979. Non mancheranno
gli allori come i due titoli ugandesi consecutivi conquistati nel 1976 e nel
1977. La carriera di Omondi rischia però di interrompersi bruscamente
nel 1976, quando a seguito di una violenta collisione col portiere del Kilembe,
Kikomeko, riporta lo spappolamento del pancreas. La situazione è
drammatica, si teme per la sua vita. Il parere degli esperti non lascia speranze:
se sopravviverà sicuramente non potrà più tirare a calci un pallone. Il destino
non ha però fatto i conti con la scorza ruvida dell’ugandese. Philip è tenace,
si allena e dopo tre interventi chirurgici è pronto a fare ritorno sul
rettangolo verde. E’ il 22 Giugno 1977, il KCC sfida il NIC,
ma per tutti è il giorno della resurrezione di Omo. Uno come Omondi però
non può limitarsi alla sola presenza. Fa le cose in grande: segna uno dei tre
goal con la quale la compagine capitolina condanna alla sconfitta il NIC. E’ la
rinascita. Ad un anno dalla Coppa d’Africa, competizione in cui finora ha
deluso, Omondi è pronto a disputare un torneo da protagonista. Andrà
probabilmente oltre le più rosee aspettative.
Dopo l’esordio contro il Congo-Brazzaville
bagnato dal goal, arriva la rovinosa sconfitta contro la Tunisia. Per
ironia della sorte con lo stesso punteggio col quale l’Uganda si era
imposta nel primo incontro. Per le Gru timbra il cartellino Musenze.
Una rete che serve soltanto a lenire il passivo reso pesante dalla reti di Labidi
e dalla doppietta di Ben Aziza. La sconfitta può essere fatale, ma
ancora non tutto è perduto. Nell’ultima partita del girone occorre la vittoria.
Nient’altro che la vittoria. Solo e soltanto la vittoria. L’ostacolo da
superare è il più alto: il Marocco campione in carica. Serve una grande Uganda.
Occorre il miglior Omondi. Davanti ai ventimila cuori dello Stadio
Comunale di Kumasi, le Gru annichiliscono i Leoni d’Atlante con
un 3-0 che non ammette repliche. Oltre alle reti di Godfrey Kisitu e Nsereko
non può mancare la prezzemolina marcatura di Philip. Perché come afferma il
noto giornalista ugandese Hassan Badru Zziwa “Per Omondi segnare è
più naturale di respirare”.
Superato il
primo turno e con un Omondi decisivo come non mai sognare in grande non
è più vietato. Anche l’utopia deve fare i conti con la classe del numero 15 in
maglia rossa. In semifinale a sbarrare la strada alle Gru c’è la sempre
temibile Nigeria. Le Super Aquile di Lagos sono reduci dal
terzo posto ottenuto nell’edizione precedente e tra le proprie file annoverano
giocatori di buona levatura tecnica come Martin Eyo e Adoki
Amesiemaka. L’Uganda non avverte l’emozione e all’11’ passa con Nasur.
Nella ripresa le Super Aquile inseriscono Eyo al posto di Cristopher
Ogu, impalpabile fino a quel momento. La scelta paga i suoi dividendi al
54’ quando il neoentrato infila Ssali e riporta in equilibrio le sorti
dell’incontro. Tutto da rifare per le Gru. Nessun problema, ci pensa Omondi.
Riceve un preciso filtrante da Kisitu, ondeggia col pallone, dribbla tre
difensori avversari e dopo un paio di finte fulmina l’impotente Okala. Tom
Lwanga, arcigno difensore di quella selezione fotografa il momento: “Tutti
guardiamo. Omondi finta il tiro e Okala cade a terra goffamente. Non è finita.
Okala si ridesta, ma Omondi lo sbeffeggia con una seconda finta. Poi una terza,
con Okala che si tuffa nella direzione sbagliata, lasciando ad Omondi la porta
spalancata per segnare”. L’Uganda è in finale. Si parte per Accrà,
dove ad attendere le Gru c’è la selezione di casa trionfante nell’altra
semifinale a scapito della Tunisia.
E’ il 16 Marzo 1978. Un
clima di festa accoglie le due squadre all’Accrà Sport Stadium.
Ottantamila occhi vispi, accesi, vivi in cui scorre la pellicola di una vita
piena di sacrifici e densi di speranza per un successo tanto aspettato. Tra le
ali di folla festante si scorgono anche i kanzu, i tradizionali costumi ugandesi.
Il pubblico però sarà un prezioso alleato delle Stelle Nere. Lo si
intuisce quando un boato disumano precede il fischio d’inizio dell’arbitro
libico Youssef El Ghoul. Dopo un’iniziale fase di studio, al
38’ arriva la svolta: Afriye si infila in un buco
lasciato dalla retroguardia ugandese e con un morbido pallonetto castiga
l’uscita scriteriata di Ssali. L’Uganda
vestita di rosso non riesce a reagire. Omondi si sbatte ma, lasciato
troppo spesso isolato dai compagni, viene arginato senza molti affanni dai
centrali ghanesi. Il sipario cala al 64’ quando ancora Opoku Afriye
scatta in contropiede, non si fa ipnotizzare da Ssali e sigla la
rete del raddoppio. I restanti minuti scorrono via beffardi e sfuggenti, una
lenta agonia irreversibile fino al triplice fischio finale.
Il Ghana è campione
d’Africa per la terza volta nella sua storia. Le Gru hanno spiegato le
ali volando in territori inesplorati. Una vetta mai scalata né prima né dopo.
Quelle Gru resteranno per sempre nel cuore degli ugandesi. Era
l’Uganda timonata in panchina da Peter Okee e in campo da Philip
Omondi,
spalleggiato da gente come Tom Lwanga, Jimmy Kirunda
e Godfrey
Kisitu. Due leader accomunati anche dalla sfortuna. Okee,
prima di diventare allenatore delle Gru, fu costretto ad archiviare la
carriera da giocatore a causa di due gravi infortuni: uno alle costole e
l’altro alle ginocchia. Un allenatore dalla disciplina ferrea ma dall’animo gentile
come ricorda Peter Okech, suo capitanto ai tempi del Prison
FC.
“Fuori
dal campo era un fantastico gentiluomo”. Secondo Jimmy
Bakyayta Semugabi, ex compagno di nazionale, la sua dote
maggiore era la grande forza di volontà “ Non posso descrivere Okee come un grande talento,
ma aveva un senso del lavoro talmente alto che bastava anche per il talento che
non aveva”. Nasur, attaccante ugandese a segno
nella rassegna del 1978 preferisce ricordarlo con un aneddoto: “Okee ci faceva
allenare sulle rimesse laterali a lunga gittata, come quello che abbiamo visto
fare a Rory Delap”. Insomma una persona a trecentosessanta gradi,
capace di portare l’Uganda ad un traguardo mai nemmeno
sfiorato da nessun’altro.
Pochi mesi dopo quell’eccezionale
risultato in coppa d’Africa scoppierà l’ineluttabile conflitto con la Tanzania.
Gli ugandesi lo chiameranno la Guerra di Liberazione perché porterà
alla destituzione del tiranno Amin Dada. Omondi
lascerà la patria ed emigrerà in cerca di fortuna e di soldi negli Emirati Arabi
Uniti, dove aprirà e chiuderà una parentesi dal 1979 all’1983.
Anno in cui, mosso da saudade tornerà al KCC,
dove contribuirà attivamente alla conquista di due scudetti ugandesi nel 1983 e
nel 1985 e due Coppe Kakungulu nel 1984 e nel 1987. Assaggerà con alterne
fortune anche la carriera d’allenatore prima di morire il 20 Aprile 1999
in seguito ad una tubercolosi. Una triste fine per un calciatore di cui non
possiamo apprezzare le qualità in video di repertorio o altre amenità simili.
Un calciatore le cui gesta sono custodite gelosamente nei cuori ovattati degli
ugandesi. Roba da far invidia.
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