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venerdì 25 settembre 2015

Giustizia per Paolo


 Una triste ricorrenza, il 25 settembre del 2005 il grave incidente occorso a Paolo Scaroni, ultras del Brescia, in occasione della trasferta della formazione lombarda a Verona. 
di Vincenzo Paliotto
Anche questa estate con enorme piacere e come mia buona abitudine ho presenziato al torneo di calcio “A chi ci guarda da lassù”, una kermesse calcistica quantomeno originale organizzata dagli Ultras Curva Sud Catello Mari di Cava de’ Tirreni. Una manifestazione disputata tra squadre composte da ultras, che al di là dei suoi immensi contenuti e spunti sociali, concede l’opportunità di scoprire un’altra faccia del mondo del pallone, probabilmente in molti casi purtroppo dolente e molto spesso alimentata da ingiustizie. In questa occasione ho avuto la possibilità di conoscere e di stringere la mano a Paolo Scaroni, un ultras bresciano a cui è stata riconosciuta il 100 per 100 di invalidità civile dopo una sorta di mattanza subita dagli agenti della celere di Bologna al termine di un Verona-Brescia del 24 settembre del 2005 alla stazione ferroviaria della città scaligera. Una storia difficile da capire e persino da raccontare, per la quale Scaroni riporterà per il resto della sua vita i segni indelebili di una ripresa miracolosa, ma allo stesso tempo sofferta. L’aggressione subita dagli agenti della celere in un pomeriggio alla Stazione Ferroviaria di Verona lo hanno reso invalido al 100% senza attenuanti.

 La perseveranza di molti esponenti del mondo ultras, in prima linea degli Ultras Brescia 1911, sostenuti nella loro lotta da altri gruppi come quelli dell’Atalanta, della Cavese, del Fasano, dell’Aquila, del Verona, del Padova, della Sampdoria hanno permesso di portare avanti un braccio di ferro, in molti casi o quasi sempre impari, per ottenere giustizia per i danni e le ingiustizie riportate da Paolo. Per far si che il disgustoso “trattamento” riservato a Paolo Scaroni non cadesse nel dimenticatoio delle cose da non ricordare e tantomeno da non dire come in molti casi è successo ad altri sfortunati ragazzi, non soltanto del mondo ultras, ma ragazzi per così dire di tutti i giorni. Come nel caso di Stefano Cucchi, di Federico Aldrovandi, di Gabriele Sandri e tanti altri ancora, ma anche di Stefan Furlan ad esempio, un ultrà triestino morto nel 1984 a colpi di manganello, per il quale anche con il trascorrere inesorabile dei decenni non è mai stata fatta alcun tipo di seria giustizia.

 E’ un percorso difficile, in molti casi ancora più sofferente della stessa morte e dei guai procurati alla vittima, soprattutto perché quando sono implicate le forze dell’ordine in Italia le procedure della magistratura miracolosamente si allungano all’infinito e trovano degli intoppi inattesi, persino mortificanti per le vittime di turno. Ma poi, dopo molti sforzi, in molti sognano anche che lo spiraglio della giustizia potrebbe improvvisamente riaprirsi e consegnare agli inquirenti, ma soprattutto ai diretti interessati la verità. Proprio come nel caso degli assassini di Federico Aldrovandi. Tanti anni e tanti mesi di attesa e di fuorvianti indagini, poi una testimonianza decisiva che arriva da parte di una donna di colore che lavora nella zona della città di Ferrara in cui è avvenuta la mattanza e che incastra definitivamente i colpevoli. In una lotta, comunque, portata avanti soprattutto dai suoi familiari e dalla gente a lui vicina, non certo dalle autorità competenti o da chi con maggiore velocità avrebbe potuto fare luce sul caso in questione. L’inchiesta in questo caso, però, è stata sorprendentemente aperta grazie alla testimonianza dello stesso Scaroni che, risvegliatosi miracolosamente dal coma dopo 64 giorni e dopo esser stato dato per spacciato dai medici senza possibilità di ritornare ad una vita, racconta tutto di quanto accaduto ad una coraggiosa poliziotta della Questura di Brescia, che in solitudine e a fronte di non poche resistenze e di pressioni di ogni genere riapre il caso. Anche le pagine de L’Espresso, con un articolo a firma di Paolo Biondani, ricostruiscono minuziosamente il pomeriggio infausto alla stazione ferroviaria di Verona e gli abusi di potere del reparto celere di Bologna. Gli 800 tifosi bresciani scortati alla stazione di Verona sono oggetto di una vera e propria rappresaglia da parte degli uomini con le divise blu. Gli scontri sono violentissimi e nei giorni immediatamente successivi alla vicenda i verbali della polizia sono aggiustati e contraffatti in maniera palese e vistosa. Addirittura per giustificare il comportamento tenuto dalle forze dell’ordine si sostiene che gli scontri siano avvenuti tra gli ultrà veronesi e quelli bresciani. Tesi che, però, viene in un secondo momento clamorosamente e completamente smontata, in quanto nella ricostruzione dei fatti di quel pomeriggio in effetti le due tifoserie non riescono ad arrivare neanche in contatto. Quindi, si prova a cercare un altro alibi utile alla forze dell’ordine e pertanto si opta di tentare per una seconda e disperata ipotesi di reato, quella in cui gli ultras bresciani avrebbero provato a bloccare la partenza di un treno dalla stazione di Verona. Ma in questo caso proprio questa seconda tesi viene smentita dagli stessi macchinisti delle Ferrovie dello Stato, che invece testimoniano completamente il contrario. Ma l’insabbiamento delle prove inizia a distanza di poche ore in pratica dal momento in cui Paolo entra in coma. Il depistaggio da parte dei funzionari delle forze dell’ordine è di estrema precisione e di grande scrupolosità. Dai contributi filmati che riprendono i momenti della trasferta dei bresciani a Verona guarda caso sono tagliate e spariscono “inconsapevolmente” proprio le scene che documentano l’aggressione vile e senza motivi al povero Paolo Scaroni. Della durata peraltro anche abbastanza consistente per un filmato e cioè  di quasi dieci minuti, cioè nella sostanza neanche poi così pochi. Occorreranno indagini lunghe e faticose, testimonianze e deposizioni per riannodare il filo delicato di una verità, occultata con grande bravura dalle forze dell’ordine e dai loro vertici dirigenziali.


 Al Tribunale di Verona era sembrato che finalmente fosse scoccata anche in questo caso l’ora della verità. La magistratura ha aperto un processo simbolo nei confronti di ben 8 agenti del reparto celere di Bologna (Luca Iodice, Antonio Tota, Massimo Coppola, Michele Granieri, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Vladimiro Rulli), a detta di molti una squadra come dire “cattiva”, che avrebbero procurato l’invalidità permanente per Paolo Scaroni. Una partita difficile per Paolo e per tutti gli altri tifosi e per tanti ragazzi vittime nella storia dei soprusi da parte delle forze dell’ordine. All’apertura del processo 150 ultras, in rappresentanza di diverse tifoserie, si sono presentati all’esterno del Tribunale di Verona per intonare cori in favore di Paolo e per far sentire la loro presenza. Il Ministro degli Interni Maroni, quello della Tessera del Tifoso, ha garantito giustizia per tutti senza omertà. Nel corso di questi lunghi mesi un ultras atalantino ed un bresciano hanno prodotto un filmato che racconta la storia di Paolo e la lotta sostenuta per testimoniare per la sua causa. La mia storia è simile a quella di Federico Aldovrandi, Gabriele Sandri, Stefano Cucchi, Carlo Giuliani e di tanti altri ragazzi sfortunati. La differenza è che io sono ancora vivo e posso parlare“, dice Paolo Scaroni che oggi ha 35 anni.

 “Pestarono ultras e lo resero invalido al 100%. Assolti otto poliziotti di Bologna”, ha poi dovuto titolare purtroppo la mattina del 19 gennaio del 2013 una pagina de Il Fatto Quotidiano a firma di Renzo Marceddu. Al momento della sentenza per quel pestaggio gli otto poliziotti incriminati del settimo reparto mobile di Bologna sono stati assolti dal Tribunale di Verona: sette di loro per insufficienza di prove (del resto i 10’ del filmato del pestaggio a Paolo Scaroni sono stati tagliati), mentre un ottavo agente, alla guida della camionetta, per non aver commesso il fatto. Tutti erano accusati di lesioni gravissime nei confronti del tifoso del Brescia, Paolo Scaroni, ma nessuno ha pagato per questo. Un giorno Scaroni scrisse anche una lettera a Maroni che iniziava così, poi in molti hanno smesso di leggerla. Paolo non ha mai ricevuto una risposta né tantomeno le scuse formali di un politico, da parte delle istituzioni o tantomeno dalle stesse forze dell’ordine:

 scrivo questa lettera alla vigilia dell’anniversario di una data che mi ha cambiato la vita: il 24 settembre del 2005.
Mi presento: sono Paolo Scaroni, abito a Castenedolo, piccolo paese della provincia di Brescia.
Ero un allevatore di tori.
Ero un ragazzo normale, con amicizie, una ragazza, passioni, sani valori -anche sportivi- e la giusta curiosità. Facevo infatti molto sport e viaggiavo quando potevo.
Ero soprattutto un grande tifoso del Brescia.
Una persona normale, come tante, direbbe Lei.

Oggi non lo sono più (per la verità tifoso del Brescia lo sono rimasto, sebbene non possa più vivere la partita allo stadio com’ero solito fare: cantando, saltando, godendo oppure soffrendo).

Tutto è cambiato il 24 settembre del 2005, nella stazione di Porta Nuova a Verona.

 Fortunatamente nella sua disgrazia Paolo Scaroni non è mai rimasto solo. Un altro giornalista ed autore ha approfondito in maniera toccante la sua vicenda. Francesco Corona, infatti, ha realizzato addirittura un film dedicato a questa dolorosa vicenda dal titolo inequivocabile di A volto scoperto, denunciando ancora una volta l’operato nella circostanza delle forze dell’ordine, ma puntando l’attenzione anche sulla stessa difficilissima riabilitazione, peraltro miracolosa, di Paolo Scaroni. Uno stralcio del film è andato in onda per la prima volta in esclusiva in occasione della trasmissione di Rai Tre Presa Diretta stranamente in prima serata il 6 gennaio del 2014 all’interno di una puntata speciale dal titolo Morti di stato. Per una volta tanto, grazie soprattutto ai giornalisti Riccardo Iacona e Andrea Bevilacqua, se n’è parlato senza censure e in un orario in cui in tanti hanno potuto seguire la trasmissione televisiva. L’obiettivo del film di Corona e del movimento di uomini e di idee che lo hanno affiancato è quello di ottenere il numero identificativo sulle divise degli agenti delle forze dell’ordine. Un traguardo democratico che in Italia pare ancora difficile da tagliare.

 

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