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venerdì 26 giugno 2015

Calcio, resistenza e dignità


di Alessandro Colombini (www.minutosettantotto.altervista.org)

Ti guardi intorno e ne senti il bisogno, in Italia più che mai. Perin, Buffon, Abbiati, Cannavaro, Aquilani, Di Canio e, cronologicamente ultimo, Perez sono solo alcune delle facce del lato più nostalgico del calcio nel belpaese. Nessuno si stupisce se personaggi ricchi e straricchi cresciuti in un ambiente che fa del machismo, del maschilismo, dell’agonismo e del razzismo alcuni dei suoi valori portanti quando diventano uomini si fanno fotografare vicino a busti di Mussolini (Aquilani), esultano con il braccio teso (Perez e Di Canio), festeggiano vittorie con magliette riportanti slogan del ventennio (Buffon) o semplicemente si lasciano ad andare a dichiarazioni nostalgiche (Perin, Cannavaro e Abbiati. Ovviamente “la cosa sbagliata fu l’alleanza con Hitler”, ci mancherebbe). Il calcio però per fortuna è sempre stato popolato anche da personalità dichiaratamente antifasciste (più ieri che oggi, purtroppo), ed ignorarle oltre che sbagliato sarebbe stupido. Dimenticare quelle gesta e tuffarsi del disfattismo regala il calcio alle tifoserie che portano la celtica in curva o a chi fischia i giocatori neri. Il calcio è anche e soprattutto aggregazione popolare e, di conseguenza, antifascismo.

Minuto Settantotto vi porta a scoprire 3 storie di persone che hanno saputo dire di no. Tre storie di Resistenza.

Sergio Manzarena e Aitor Aguirre

Santander, 1975. Siamo nell’estremo nord della Spagna franchista e nel “Campos de Sport de El Sardinero” il 28 settembre si gioca Racing Santander, squadra locale, contro l’Elche. In campo ci sono i consueti 22 uomini, ma le attenzioni di tutti sono su quell’ala destra e quell’attaccante del Racing Santander con una banda nera al braccio. Si chiamano Sergio Manzarena e Aitor Aguirre e il motivo di quella stringa nera lo troviamo nei nomi di sette ragazzi: Jon, Txiqui, Angelo, Josè Luis, Ramon e Josè. Erano le ultime vittime delle fucilazioni franchiste, uccisi la sera del 27 settembre perché accusati di militanza nell’ETA e nel FRAP. Lo vennero a sapere da una radio clandestina Sergio e Aitor, e non ci fu neanche bisogno di pensarci: “Una reacción visceral”, racconterà in seguito Manzarena, “un gesto por la democracia”. Subito dopo la partita un gruppo di estrema destra minacciò i due calciatori e il presidente del Racing Santander di morte, mentre la Federazione multava i due con 300.000 pesetas a testa con l’accusa di aver minacciato l’ordine pubblico. Quelle di Jon, Txiqui, Angelo, Josè Luis, Ramon e Josè saranno le ultime fucilazioni dei franchisti e la dittatura cadrà poco dopo, regalando Sergio, Aitor e quelle due stringhe nere alla storia non solo del Racing Santander, ma di tutta la Resistenza spagnola.

 

Michele Moretti

Como, 1932. Ne ha già scartati tre quell’oriundo, è una cazzo di bestia palla al piede. Si chiama Attila Sallustro e a Napoli sta facendo goal a palate diventando una colonna portante della Nazionale italiana. Ne ha già scartati tre, dicevamo, ed ora sta puntando Michele. L’aveva capito che sarebbe rientrato sull’interno e l’oriundo ci trova già il piede del terzino della Comese che lo contrasta. Gomitata nella bocca dello stomaco, alla faccia dell’amichevole a fine allenamento della Nazionale A. Piede a martello sulla coscia, la risposta di Michele. “Vuoi che sia il tuo ultimo allenamento in Nazionale, Moretti?”, lo rimprovera a fine allenamento Pozzo, “Sallustro domenica scende in campo contro la Svizzera!”. “Sono qui per giocare a calcio, non per farmi picchiare. Le mie spalle valgono come quelle degli altri, mister”. Questo è Michele Moretti. O meglio, questo è i Pietro Gatti, comandante partigiano della 52° Brigata Garibaldi. Terzino della Comese dal ’27 al ’35, fu uno dei protagonisti della mitica annata ’29-’30, dove la Comese termina la stagione in Prima Divisione imbattuta (sfiorando l’anno dopo la promozione in Serie A). Iscritto fin da subito all’illegale Partito Comunista capisce ben presto che in quegli anni c’erano cose più importanti del calcio: la libertà, una su tutte. Nel 1943 sfugge alla deportazione e si unisce alla lotta partigiana, diventando il comandante della 52° Garibaldi e scrivendo uno dei capitoli più importanti della storia italiana. Il 27 aprile 1945 a Blevio sono in cinque: il Colonnello Valerio, Guido Conti, Benito Mussolini, Claretta Petacci e Michele, per l’occasione Comandante Pietro Gatti. Dopo la cattura dell’ormai ex Duce e dell’amante era prevista la fucilazione sul luogo. Incaricato dell’esecuzione era il Colonnello Valerio, ma al momento della raffica mortale il Thompson si inceppa. La storia vuole adesso due versioni: la prima è che Moretti abbia passato il suo Mas 7,65 al compagno per compiere l’esecuzione, un’altra è quella che fu lo stesso terzino della Comese ad uccidere Mussolini e la Petacci. Attila Sallustro non venne convocato per il Mondiale del ’34 e con il passaggio alla Salernitana iniziò un inarrestabile declino, Michele Moretti tornò a fare l’operaio e i partigiani liberarono l’Italia.

Oleksiy Gai

Odessa, 2014. Non siamo in una città come le altre. Siamo una città segnata a vita dal sangue di vittime innocenti. Facciamo il punto della situazione: il 2 maggio 2014 a Odessa, dopo violenti scontri tra filo-russi e ultras neonazisti sostenitori del governo di Kiev, un gruppo di manifestanti filo-russi si è rifugiato nel Palazzo dei Sindacati. Una gruppo di estremisti di destra, sostenitori del governo auto-proclamatosi, ha iniziato un fitto lancio di molotov sul palazzo comportando uno spaventoso incendio. Le vittime sono state trentotto, tra cui anche diverse donne, la maggior parte bruciate vive, soffocate dal fumo o morte in seguito ad un disperato lancio dal palazzo in fiamme, ma su svariate vittime sono stati rinvenuti spari o evidenti segni di stupro. Non è una città come le altre Odessa, non può esserlo. Durante Chornomorets Odesa FC-Karpaty Lviv sono in 21 a piegare la testa. Oleksiy dice di no. Le squadre entrano in campo con una maglietta emblematica: “Gloria all’esercito ucraino” recita una scritta in cirillico. La portano tutti tranne quel centrocampista con vizio del goal ed un buon passato tra le fila dello Shakhtar Donetsk. “Non ho capito il senso dell’azione”, spiega alle telecamere, “è una partita di calcio. Cosa c’entra l’esercito ucraino?”. Oleksiy Gai è quel’1 su 21 che ci ricorda ogni santa volta cosa sia la dignità.

L’articolo è uscito in anteprima per la pagina otto dell’edizione del 16 maggio del mensile Senza Soste.

 

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